venerdì 31 luglio 2015

SINDONE



Andrea Nicolotti
SINDONE
STORIE E LEGGENDE DI UNA RELIQUIA CONTROVERSA
Einaudi
2015, cartonato,
380 pagine, 32 euro. 

Tanto di cappello di fronte a un saggio scritto come tutti i saggi del genere dovrebbero essere. Cioè compilati con rigore storico e scientifico, esaminando ogni aspetto delle questioni, presentando ipotesi, tesi, smentite e controsmentite e accettando per vere soltanto le affermazioni provate su solide basi, con note puntualissime che rimandano alle fonti precise e rintracciabili di ogni minima affermazione e, infine, andando alla ricerca negli archivi di ogni documento che possa confermare o smentire quanto detto. Procedendo in questo modo, si sgombra finalmente il campo da un secolare ciarpame di leggende senza fondamento. La lettura è affascinante e se ne resta intrigati. Potrà sembrare strano, ma i capitoli dedicati alle analisi scientifiche sul lino di Torino che, secondo la tradizione, dovrebbe recare impressa l'effige del corpo di Gesù crocifisso, costituiscono una parte tutto sommato limitata (anche perché assai limitate sono state le sperimentazioni, non essendo stato concesso che pochissimo campo d'indagine). In realtà, i dati scientifici disponibili non fanno che confermare quello che l'indagine storica già di per sé permette di appurare. 

La Sindone comprare improvvisamente in Francia nel 1355, citata in documento nel quale un vescovo impone a una comunità di religiosi della collegiata di Lirey di non ingannare i fedeli (allo scopo di richiedere oboli) dichiarando come autentica una reliquia spacciata come il lenzuolo funebre del Cristo, dato che era noto persino l'artefice del lino. La questione fu portata persino davanti al papa che confermò il parere del vescovo chiedendo che al popolo venisse spiegato che si trattava di un artefatto. Del resto, prima del Trecento in nessun altro documento veniva testimoniata l'esistenza di quel lino (le ipotesi contrarie vengono tutte puntualmente smontate dal Nicolotti), nessuno ne aveva mai vantato il possesso o raccontato di averlo visto. Per di più, in quell'epoca, le presunte reliquie provenienti dalla Terra Santa pullulavano in ogni luogo, e anche di sindoni se ne contavano a decine (alcune si venerano come vere ancora oggi, in varie chiese d'Europa - la Sindone di Torino è solo una fra le tante). Si è arrivati persino al punto di suggerire (da parte delle autorità ecclesiastiche) di non considerare a priori autentica nessuna reliquia venuta alla luce nel basso Medioevo, perché se me fabbricavano di false (a scopo commerciale) a ogni piè sospinto. Il metodo di tessitura della Sindone di Torino è del resto medievale (non ne esistono esempi precedenti) e la datazione del decadimento del carbonio ha indicato (dopo essere stata effettuata in laboratori diversi) gli anni tra il 1260 e il 1390 come quelli della raccolta de lino con cui il panno è stato fabbricato. La datazione scientifica è stata contestata con vari argomenti, che però sono tutti infondati. Così come sono infondate le pretese di poter datare diversamente la Sindone con i pollini o con fantomatiche monetine posate sugli occhi dell'immagine (che non esistono). Purtroppo la sindolonogia è ormai diventata una pseudoscienza praticata da personaggi bizzarri se non acclaratamente truffaldini (i racconti fatti da Nicolotti in proposito sono tragici ed esilaranti al tempo stesso). Resta il fatto che la Sindone non serve alla Fede e la Fede non serve alla Sindone. E questo dovrebbe bastare.

Sull'argomento, esprimendo dubbi di semplice buon senso (e non già opinioni sulla base di competenze che non ho), ho scritto in passato l'articolo "Sindrome da Sindone" sul blog "Freddo cane in questa palude".

mercoledì 29 luglio 2015

QUER PASTICCIACCIO BRUTTO DE VIA MERULANA



QUER PASTICCIACCIO BRUTTO DE VIA MERULANA
di Carlo Emilio Gadda
prefazione di Piero Citati, postfazione di Giorgio Pinotti
Garzanti
2013, 280 pagine, 12 euro

 "I capolavori sanno aspettare", mi ha scritto un amico dopo aver saputo che mi sono accinto alla lettura solo dopo quaranta anni dall'essere diventato un lettore consapevole. In effetti, affrontare il "Pasticciaccio" è indubbiamente una delle esperienze da fare nella vita. Bellissimo e complesso e appunto per questo non del tutto decifrabile né raccontabile (impossibile, credo, render conto fino in fondo della bellezza della complessità), il capolavoro lascia dentro la sensazione che la scrittura di tutto il resto sia misera cosa rispetto al caleidoscopio della sua lingua. Secondo Calvino, Gadda "cercò per tutta la vita di rappresentare il mondo come un garbuglio, o groviglio, o gomitolo, di rappresentarlo senza attenuarne affatto l'inestricabile complessità, o per meglio dire la presenza simultanea degli elementi più eterogenei che concorrono a determinare ogni evento". 

La trama è sostenuta da un plot giallo che intriga di per sé: in un palazzo della Roma bene, durante i primi anni del Fascismo (nel 1927), si susseguono a breve di distanza di tempo due fatti criminosi: il primo, meno grave, la rapina di una anziana signora derubata, a mano armata, dei suoi ori; il secondo, l'efferato delitto di una donna, Liliana Balducci, sposata ma senza figli, trovata sgozzata dopo essere stata aggredita mentre era sola in casa. Le indagini sono affidate al commissario di polizia don Ciccio Ingravallo, molisano trapiantato nella Capitale, e i suoi interrogatori portano il racconto a investigare sia negli ambienti benestanti che in quelli più popolari della città e delle campagne circostanti. La descrizione della varia umanità che affolla e colora gli uni e gli altri è di una efficacia stupefacente, così come della realtà quotidiana della vita di quegli anni. 

Carlo Emilio Gadda
Per raccontare il suo caravanserraglio, nella versione definitiva del 1957, Gadda utilizza un linguaggio strepitoso, intrecciando il più sofisticato e barocco italiano (modellato comunque a modo suo) con termini e costruzioni sintattiche prese in prestito dai dialetti più disparati, per cui ogni personaggio viene descritto con le sfumature della sua parlata. Interi dialoghi sono in stretto romanesco, studiato e ristudiato attraverso varie rielaborazioni (Gadda era milanese e giunse nella Capitale, per lavorare in RAI, solo in età matura), ma si intrecciano parlate venete, napoletane, molisane, umbre, laziali lato. L'autore designa ogni oggetto, ogni moto dell'animo, ogni azione, con la parola, il verbo, l'espressione più consona e puntuale, andando a scovare o inventando onomatopee bellissime e termini desueti, scolpendo e modellando il testo come un artista rococò. Quando, a lettura terminata, si torna a leggere autori che si esprimono con il più basic dell'italiano, il confronto è spiazzante. Il giallo alla fine trova una parziale soluzione: sappiamo che Ingravallo sa, ma non ci viene detto esattamente com'è andata. Tuttavia, gli indizi sono sufficienti per trarre la somma da soli. Per Gadda la realtà è troppo complessa per poter giungere a venir semplificata nel nome di un assassino. O un'assassina.

martedì 28 luglio 2015

OMICIDIO A ROAD HILL HOUSE



OMICIDIO A ROAD HILL HOUSE
di Kate Summerscale
Einaudi 2008
360 pagine, 13 euro


A differenza di ciò che si può pensare dal titolo, non si tratta di un giallo, almeno non nell'accezione comune del termine. Non si tratta neppure di un romanzo, ma a tutti gli effetti di un saggio storico e letterario al tempo stesso, scritto però in modo così avvincente da risultare affascinante come un racconto di fantasia. L'autrice, che con questo libro ha vinto il prestigioso Samuel Johnson Prize nel 2008, ricostruisce con meticolosità certosina un fatto di cronaca realmente avvenuto in Inghilterra nel 1860. Un crimine così efferato da aver riempito le cronache dei giornali per mesi e mesi, ed essersi risolto solo dopo cinque anni. Al di là del delitto in sé e per sé, alla saggista interessano almeno tre altri aspetti: innanzitutto, la società dell'Inghilterra del periodo e il modo di vivere in campagna e in città delle diverse classi sociali; in secondo luogo, la nascita dell'indagine di polizia così come la conosciamo ancora oggi; terzo, il modo in cui la figura del poliziotto, dell'investigatore, del detective, dalla realtà si trasferisce, attraverso i giornali, nella letteratura. 

Charles Dickens e Arthur Conan Doyle sono soltanto due fra i nomi più famosi che attingono dagli spunti offerti dalle cronache giudiziarie dell'epoca per scrivere i loro racconti e romanzi. Anzi, proprio Dickens si espresse sull'identità del colpevole nel caso del delitto di Road Hill House indicando chi sarebbe stato e perché, ma sbagliò clamorosamente. Fu proprio in concomitanza con il caso di cui si occupa la Summerscale che nacque la "detection novel". Capostipite ne fu "La pietra di luna", di Wilkie Collins, in cui compare un certo sergente Cuff chiaramente ispirato all'ispettore Jonathan Whicher di Scotland Yard che indagò, con acume, nel caso di Road Hill. "I delitti della Rue Morgue" di Edgar Allan Poe è datato 1841 e anche se viene considerato il capostipite del giallo non presenta un vero poliziotto quale autore delle indagini e propone una trama tutto sommato fantastica che si discosta dal realismo che contraddistingue invece il poliziesco vittoriano, da cui nasce una scuola giunta fino ai nostri giorni. Il caso di Road Hill ha influenzato un capolavoro quale "Giro di vite" di Henry James e perfino l'ultimo romanzo di Dickens, "Il mistero di Edwin Drood". 

Di che si tratta? In una casa di campagna appartenente a una famiglia borghese, quella di Samuel Kent, un bambino di tre anni, Saville, scompare nottetempo dalla sua culla, nonostante accanto a lui dormisse la bambinaia, Elizabeth Gough. Il piccolo, dopo lunghe e disperate ricerche, viene ritrovato sgozzato nella fossa della latrina della servitù, nel cortile. La casa era stata chiusa la sera precedente in modo tale che sicuramente nessuno avrebbe potuto penetrarvi dall'esterno. Il colpevole deve essere perciò uno degli undici residenti all'interno, tra cui il padre con la sua seconda moglie Mary Pratt, incinta all'ultimo mese, altri due figli di costei e del marito, più i figli di primo letto di Samuel Kent, quattro in tutto. Quindi, tre membri della servitù. Attorno alla casa si aggirano comunque altri servi non residenti, e c'è un vicino paese. Di ogni personaggio vengono dettagliatamente descritte le mosse, le caratteristiche psicologiche, le eventuali motivazioni. Whicher giunge da Londra dopo che i poliziotti locali non si sono dimostrati in grado di cavare il ragno dal buco, e lamenta la maldestra conduzione delle loro indagini. Anche dell'ispettore la Summerscale offre un efficacissimo ritratto a tutto tondo. L'uomo di Scotland Yard arriva presto a una convinzione che però non regge in tribunale. La stampa allora lo fa a pezzi: il poliziotto deve dimettersi e finisce per ammalarsi. Cinque anni dopo, salta fuori la verità. Whicher viene riabilitato. Tuttavia, la Summescale, esaminando la vita di tutti i protagonisti del giallo, si convince, e convince anche noi, che i fatti siano andati in un modo leggermente diverso da quello che risulta dagli atti conclusivi dell'inchiesta. Non dico di più: vi consiglio di leggervi il libro.

lunedì 27 luglio 2015

NORMAN ROCKWELL: 322 COVERS




Christopher Finch
Norman Rockwell
NORMAL ROCKWELL: 322 MAGAZINE COVERS
Abbeville Press 
2013 - cartonato
400 pagine, 40 dollari

E' un librone in cui perdersi, questo, che raccoglie oltre trecento illustrazioni realizzate da Norman Rockwell per le copertine del settimanale "The Saturday Evening Post" tra il 1919 e 1963, pubblicate a tutta pagina (purtroppo riprodotte dalla rivista e non dagli originali, ma del resto è così che le vedevano i lettori dell'epoca). Le copertine di Norman Rockwell, venivano realizzate con la stessa cura che un pittore dedica ai suoi quadri. Ma non si trattava di quadri: Rockwell, da grande professionista, sapeva di rivolgersi a un pubblico vastissimo e non alla ristretta cerchia dei frequentatori di una galleria d'arte, di un museo o di una collezione privata. Per questo i suoi disegni venivano realizzati tenendo ben presenti le necessità della pubblicazione a cui venivano destinati, a partire dal formato rispettoso della "gabbia" di stampa. Il tutto per giungere alla maggior comunicativa possibile del messaggio verso il lettore, anche il più distratto, che doveva notare le sue cover e essere invogliato all'acquisto della rivista. Potremmo arrivare a dire che quando ci troviamo di fronte a una rivista con copertina di Norman Rockwell, abbiamo davanti a noi l'originale: perché quella, e solo quella, é l'opera che l'illustratore intendeva realizzare, e non il foglio o la tela su cui egli, materialmente, ha disegnato l'immagine e poi steso il colore, che sono soltanto passaggi intermedi in vista del risultato definitivo, quello stampato.

La carriera di Rockwell iniziò nel 1912, ad appena diciotto anni (era nato il 3 febbraio 1894), in un periodo in cui l'illustrazione si stava guadagnando un posto di rilievo fra le belle arti, grazie alle nuove tecniche di stampa che rendevano possibile la riproduzione di immagini a mezza tinta e a colori (era stata inventata la fotocomposizione meccanica). L'artista era newyorkese, di buona famiglia e soprattutto di famiglia con tradizioni artistiche e letterarie. Suo padre, Jarvis Waring Rockwell, direttore di una importante filiale di una ditta tessile, aveva letto Dicksen ai suoi figli - e questo spiega molte cose della poetica pittorica di Norman. Il giovanissimo Rockwell cominciò fin da ragazzo a cimentarsi con l'illustrazione tentando di riprodurre il mondo dickensiano. Dopo aver compiuto studi accademici che non lo stimolavano più di tanto, Norman trovò la sua strada trasferendosi dalla paludata Accademia Nazionale alla più progressista Art Students League, dove l'illustrazione era tenuta nel giusto conto. Il suo primo incarico lo ebbe dai titolari di un grande magazzino che gli commissionarono quattro cartoline natalizie. Poi fu la volta di un libro per bambini. Da lì in poi, il lavoro non gli mancò mai. 

Nel 1912, Rockwell iniziò a collaborare con la rivista "Boy's Life", di cui ben presto divenne art director, legata al movimento dei boy-scout, Si specializzò così nel disegno di bambini e ragazzi. Nel 1916 pubblicò la sua prima copertina per il "Saturday Evening Post". Ritraeva un ragazzo ben vestito che spingeva una carrozzina mentre i suoi compagni di baseball si prendevano gioco di lui. Walter Dower, art director del "Post", non solo accettò l'illustrazione senza apportarvi modifiche, ma acquistò una seconda immagine dove comparivano dei bambini che giocavano al circo. Fin dall'inizio, Rockwell sentì profondamente i temi che lo resero così caro al suo pubblico: i bambini, la vita famigliare, gli amori giovanili, gli addii e i ritorni a casa, la giovinezza e la vecchia, le feste e le tradizioni americane. I soggetti dickensiani, poi, furono ricorrenti, a pagamento di un vecchio debito d'infanzia. Celebri furono anche le sue illustrazioni per le opere di Mark Twain (l'artista si recò di persona nel profondo Sud per studiare ambienti, abiti e oggeti d'uso comune). 

Oltre ad apprezzarne ora l'umorismo, ora il sentimento delle cover rockwelliane, non si può non restare di stucco di fronte all'abilità dell'artista nel rendere a perfezione, grazie allo studio delle espressioni, gli stati d'animo dei suoi soggetti e le variegate situazioni in cui sono posti. Rockwell preferiva disegnare basandosi su modelli dal vivo, più che su fotografie. Spesso ingaggiava modelli tra i vicini di casa, o tra gli abitanti di Stockbridge, nel Massachussetts, dove Norman si trasferì con la moglie Mary, che soffriva di depressione, nel 1953. Nel 1959, Mary morì. Rockwell si risposò nel 1961 con Molly Punderson, un'ex-insegnante in pensione. Intanto, le sorti del Post non era più floride. La rivista era invecchiata, perdeva copie. Il 14 dicembre 1963 comparve l'ultima copertina di Rockwell, un ritratto del presidente John Fitzgerald Kennedy, ucciso un mese prima a Dallas. 

Era la quattrocentoventesima cover eseguita da Rockwell per il "Post".  Di lì a poco, la rivista fallì. La decisione dell' editore di fare a meno dell'artista-simbolo che per quasi cinquant'anni ne aveva curato l' immagine non portò fortuna al magazine. Rockwell era stato accusato di aver nuociuto al gusto estetico degli americani proponendo una sua idea dell'arte troppo figurativa e tradizionalista, contro le tendenze dell'arte contemporanea. Che cosa ne pensasse Rockwell dell'arte contemporanea è ben evidenziato in una copertina del "Post" del 1962 intitolata "L'intenditore", in cui un maturo signore si sofferma pensoso di fronte a una indecifrabile opera di Pollock. L'illustratore continuò a disegnare fino al 1976, sempre ricevendo nuove commissioni. La sua ultima copertina fu eseguita per "American Artist" in occasione del Bicentenario. Dipinse sé stesso nell'atto di porre una bandiera sulla Campana della Libertà, dove si legge "Buon Compleanno". Nel novembre 1978, Rockwell moriva nella sua casa di Stockbridge.

venerdì 24 luglio 2015

SO MANY BOOKS















In media, due libri a settimana. Cento all'anno. Sono quelli che leggo io, da quando avevo dieci anni. Posso sperare (o temere) di vivere fino a novanta anni. Di conseguenza, quando morirò avrò letto ottomila libri. Angosciosamente pochi, pensando a quanti ce ne sono. Adesso sono a metà del guado. Ne ho letti quattromila e me ne rimangono altrettanti. Vago in libreria per scegliere quali. Conto i libri che mancano alla mia morte. E quelli che, esclusi per mancanza di tempo, mancheranno alla mia vita.
Adriano Sofri, una volta, in un suo articolo, aveva contato quanti cani un uomo può avere nella sua vita (sostituendo con un cucciolo nuovo il precedente appena morto) ed era arrivato alla conclusione di stare accudendo, all'epoca, il suo penultimo cane.
So little time, so many books: così poco tempo, così tanti libri.
Da qui l'urgenza di scegliere bene i titoli, perché bisogna pur chiedersi se sia meglio trascurare Balzac o Moccia, o se Joe Hill possa sostituire Stephen King. Sarebbe interessante discuterne, ma per il momento limitiamoci a parlare del numero di libri che si leggono in in mese, in un anno o in una vita.  Parliamo, insomma, di quantità e non di qualità.

Conosco lettori molto più voraci di me, e di gran lunga. Mauro Boselli, per esempio, riesce a leggere un libro ogni sera, e in lingua originale se sono in inglese, francese o spagnolo. Luca Crovi, un altro mio collega in Bonelli, è un critico letterario esperto in letteratura gialla e ha condotto sul tema un programma su Radio Due: legge praticamente tutti i gialli che escono in Italia e molti di quelli che escono all'estero. Conosco Giuseppe Lippi, direttore di Urania, che sembra aver letto tutta la fantascienza del mondo. Ascoltando Loredana Lipperini su Radio Tre, nel suo programma dedicato ai libri ("Fahrenheit"), sembra che lei legga tutto ciò che s pubblica, e la stessa impressione ho ascoltando, per esempio, Daria Bignardi.  Dunque, di fronte a questi mostri divoratori di libri, che cosa sono mai i miei otto/nove libri al mese? Per fortuna, non c'è una gara.

Però, ci sono alcune cose da dire. Leggere è un piacere e dunque ognuno deve farlo come, quando e quanto gli piace. I famosi dieci diritti del lettore elencati da Daniel Pennac nel suo saggio "Come un romanzo" stabiliscono fra l'altro che è lecito non leggere, saltare le pagine, non finire il libro, spizzicare, e fruire di qualunque cosa (anche di Moccia, dunque). Nessuno può obbligare me o voi a leggere più di quello che ci riesce o di cui abbiamo voglia, neppure l'invidia verso chi legge più di noi. Io, però, oltre ai diritti che hanno tutti, ho dei doveri che molti non hanno.

Sono obblighi dettati dalla deontologia professionale: quello di documentarmi, quello di informarmi, quello di confrontarmi con gli altri scrittori, quello di sapere che cosa legge la gente. Il dovere di documentarsi è fondamentale se si scrivono delle storie ambientate in luoghi geograficamente identificabili e in epoche storiche più o meno ben definite. E, aggiungo, più si legge più vengono idee: dunque, anche se non mi piacesse farlo, dovrei leggere ugualmente così come un atleta deve allenarsi anche se non ne ha voglia, in vista di un impegno agonistico. La mia gara è quotidiana, e consiste nello scrivere sceneggiature.

Ciò detto, ci sono, in effetti, dei trucchi per leggere di più. Non vi parlerò delle tecniche di lettura veloce, che vengono insegnate in appositi corsi, tuttavia è chiaro che più si legge più ci si allena a leggere velocemente. Tutto si fa più velocemente se si è abituati. Quasi certamente io riesco a scrivere una pagina in un decimo del tempo che impiegherebbe il mio elettricista: lui però è velocissimo con nel riparare una presa di corrente. Chi legge poco, legge piano. Io scorro con gli occhi sulle righe e afferro al volo i concetti: non è che sono più intelligente, sono più allenato. 

Anni fa, tornando a Firenze da Milano, comprai in stazione l'ottimo romanzo di fantascienza "Garibaldi a Gettysburg", di Pierfrancesco Prosperi (in passato sceneggiatore di Martin Mystére). Iniziai a leggerlo, ne rimasi affascinato, chiusi l'ultima pagina dopo tre ore di viaggio, quando già stavamo per arrivare a Santa Maria Novella. C'era una ragazza accanto a me, che vedendomi rimettere il libro nella borsa mi chiese: "Mi scusi, ma davvero l'ha letto tutto?". Sì, effettivamente l'avevo letto tutto e avrei saputo fargliene il riassunto. Ma è soltanto questione di allenamento. E' chiaro che, comunque, bisogna trovare un po' di spazio da dedicare alla lettura: se qualcuno sceglie di trascorrere l'intera serata chattando su Facebook o giocando alla playstation, non può lamentarsi di non avere tempo per leggere.

Questo mi porta a spiegare il secondo trucco: portarsi sempre un libro dietro per leggere dovunque. Se voi avete un libro con voi, potete non solo leggere in treno o in metropolitana, ma approfittare della coda alla Posta o dal dottore. Venti minuti qua, venti là,  fanno un sacco di tempo da dedicare alla lettura. Il terzo trucco è leggere più libri contemporaneamente. Il libro da portarsi dietro dovrà essere un'edizione tascabile, a casa sul comodino accanto al letto verranno piuttosto appoggiati i libri più pesanti. Io tengo un libro anche in bagno, ovviamente, e lo scelgo con capitoletti brevi, come quelli, per esempio, de "La bustina di Minerva" di Umberto Eco. Dunque, sommando il libro da passeggio, il libro da comodino e il libro da bagno già siamo a tre titoli che si possono seguire in contemporanea. Personalmente, ne aggiungo altri perché ogni sera leggo magari alcuni capitoli di due libri diversi (uno per piacere, uno per dovere) oppure li leggo a giorni alterni. Se poi compro un libro appena uscito che mi piace troppo per aspettare a leggerlo, interrompo tutte le altre letture e do la precedenza a quello.

Quarto trucco: gli audiolibri. E' strano come siano sottovalutati. Regolarmente inserisco il mio bravo CD nel lettore dell'automobile o ascolto l'iPod in cui o gli stessi autori o dei bravi attori mi leggono un romanzo. Di solito, la pagina scritta ci guadagna nell'essere letta da qualcuno che sa recitarla bene. Ho trovato straordinaria la lettura dello stesso Camilleri del suo romanzo "Il nipote del negus", ma anche Sandro Veronesi o Andrea Vitali sono ottimi interpreti dei loro testi. In altri casi, degli attori strepitosi danno voce a grandi storie che non perdono niente del loro valore letterario se fruite ascoltando invece che leggendo. Peraltro, se compro un audiolibro, compro quasi sempre anche il corrispondente cartaceo. Infine: non tutti i libri sono di quattrocento pagine. Se è vero che di recente ho letto le 750 pagine di "Questa creatura delle tenebre" di Harry Thompson (la biografia romanzata di Robert FitzRoy, il comandante del Beagle), ho anche divorato in mezz'ora il libro-intervista di Sabelli Fioretti a Piergiorgio Odifreddi (130 pagine di domande e risposte), in un'ora l'autobiografia di Bud Spencer (poco di più) e in due ore "Il pretino" di Claudio Nizzi (160 pagine). Tutte letture molto agili. E' chiaro che "L'anima e il suo destino" di Vito Mancuso mi obbliga a più concentrazione e mi occupa più tempo. Naturalmente, oltre a leggere libri leggo anche fumetti. La carta che mi circonda sta cominciando ad assumere una mole spaventosa. Guardo con terrore la tavoletta dell'iPad pensando che un giorno, tutta potrebbe finire concentrata là dentro. Non sarebbe, temo, la stessa cosa. 

giovedì 23 luglio 2015

LETTI ALL'ETTO


"Letti all'etto": così avrebbe dovuto chiamarsi questo blog prima che la scelta cadesse su un altro gioco di parole, dal titolo di un mio finto che è diventato una sorta di marchio di fabbrica. Altre possibilità soppesate erano state il più banale "Letti a letto", "Il piccolo scrivano fiorentino", "La biblioteca di Trantor", "Leggendo in metropolitana" (quest'ultimo un titolo spiritoso ma un po' criptico).

In ogni caso, eccomi a presentare questa nuova iniziativa che mi riguarda. Ovvero, un ulteriore impegno quale blogger dopo "Freddo cane in questa palude". Lo so che non ce n'era bisogno, ma lasciatemi confessare che "Utili sputi di riflessione" lo gestirò soprattutto per me e non per voi (anche se mi farà piacere ricevere le vostre visite). 

Mi serviva uno spazio dove archiviare (e poi ritrovare subito, in caso di bisogno), le mie tante recensioni  dei libri, di tutti i tipi, che leggo. Ho pensato di creare un archivio indicizzato (almeno per come mi riesce) e, dato che c'ero, di renderlo pubblico e di metterlo a disposizione di tutti. Se questa cosa potrà essere utile a qualcun altro oltre che a me, tanto meglio. Gli indici sono in alto nella barra sotto la bella foto che si deve alla brava Francesca Pesci.

Mi preme chiarire (e vi toccherà essere d'accordo) che si tratterà di appunti e commenti del tutto personali su autori di ogni genere, dai più noti agli illustri sconosciuti, e su titoli scelti sulla base di motivazioni insindacabili che non sindaco neppure con me stesso (essendo spesso in disaccordo con me medesimo). Perciò: se vi conviene bene, io più di questo non posso fare. Scriverò non solo di libri ma anche del mio amore per i libri o di tutto ciò che ruota attorno alla letteratura. 

Per ora i post sono pochi ma spero di aggiornare velocemente l'archivio pubblicando recensioni già apparse su "Freddo cane" o sulla mia pagina Facebook. Buona lettura, in tutti i sensi e con tutti i sensi.



IL POETA DELLE PICCOLE COSE





Non sono un critico letterario di professione, men che mai uno che scrive abitualmente recensioni di opere poetiche. Tuttavia, nel corso dei miei studi,  mi sono occupato spesso di versificatori e ho sempre coltivato una privata passione per un certo tipo di composizioni, quelle maggiormente collegate ai ritmi e agli accenti, che collego anche alla musica, e alle canzoni della produzione italiana, i cui testi, come ho scritto più volte, rappresentano un aspetto importantissimo della poesia italiana e, anzi, a livello di penetrazione, diffusione ed efficacia nella cultura di massa hanno sostituito quella che una volta era la versificazione tramandata oralmente anche presso coloro che non sapevano né leggere né scrivere. 

Ci sono stati, fino a pochi decenni fa, contadini o pastori che pur non avendo mai letto la “Divina Commedia” erano in grado di citarne a memoria interi canti. Esiste anche un filone di poeti illetterati in grado, grazie a uno spontaneo senso della metrica, e a una altrettanto innata ispirazione lirica, di improvvisare sonetti o cantare in ottava rima. I moderni cantautori hanno raccolto l’eredità degli antichi trovatori provenzali (le cui composizioni erano musicate, anche se ci sono state tramandate soltanto come testi, senza spartiti), e da quei trovatori, come sappiamo, nasce la poesia italiana, all’inizio del Duecento.


Sulla montagna pistoiese, la mia terra d’origine, così come in tante altre parti d’Italia, ci sono numerosi esempi di poeti “di paese”, quelli di cui, purtroppo, pare essersi perso lo stampo. Un nome fra i più famosi è di una donna, quello di Beatrice Bugelli, detta Beatrice di Pian degli Ontani (1803-1885), di cui si interessò persino Niccolò Tommaseo, che volle trascrivere su carta i versi che la donna, una pastora che portava al pascolo le pecore sulle cime tra Cutigliano e l’Abetone, cantava improvvisando in ottave, pur senza essere mai andata a scuola.
Ecco come Beatrice parla della sua educazione:

Non vi meravigliate giovinotti
se non sapessi troppo ben cantare
in casa mia non c'è stato maestri
e manco a scuola son ita a imparare.
Se voi volete intender la mia scuola:
su questi poggi all'acqua e alla gragnola!
Se voi volete intender il mio imparare:
andar per legna e starmene a zappare!

Proprio sulla montagna pistoiese, a Gavinana, giovedì 16 agosto 2012 , si è svolta infatti la presentazione del libro, da me curato, "Il poeta delle piccole cose", un saggio dedicato a un altro poeta illetterato della zona, che si firmava "Geri di Gavinana" ed era in grado di scrivere versi di una immediatezza rara. La conferenza ha avuto luogo in notturna, dopo cena, all'aperto, sotto il campanile della bellissima pieve romanica, e ha visto il sottoscritto parlare del Geri e l'attore Bruno Santini leggere, da par suo, i versi del poeta, divertenti come non mai in bocca a un dicitore così brillante. Gli organizzatori avevano predisposto cento sedie, contando di occuparne almeno cinquanta. Risultato: tutti i posti esauriti, e gente in piedi tutt'intorno, anche fuori dei cancelli, ad ascoltare (e guardare le immagini proiettate su un maxi schermo). Il libro, che è stato venduto in alcune centinaia di copie nel giro di quindici giorno (un risultato sbalorditivo per un testo di poesia), contiene non solo il mio saggio, ma una selezione, fatta da me) delle migliori opere del poeta. 

Quello che segue è un breve estratto del mio scritto, più una brevissima scelta di alcune delle opere del Geri. Se volete divertirvi, emozionarvi, ridere e commuovervi, saltate pure il mio testo e correte a leggervi il Geri. Se poi volete procurarvi il libro (costa 10 euro, tutti devoluti alle attività a vantaggio della comunità), scrivete o telefonate all'Associazione Musicale e Culturale Domenico Achilli – Piazzetta Aiale, 24 – 51028 Gavinana (PT) – Tel: 0573 66057 – Email: associazione.achilli@gmail.com


POESIE COME FIORI
Di Moreno Burattini

Giuseppe Geri, da tutti e per tutta la vita, detto “il Poeta”, nacque a Gavinana il giorno di Ognissanti, il primo di Novembre, del 1889. E a Gavinana, dove però non visse tutti i suoi anni (avendone trascorsi parecchi anche in Garfagnana), morì nel settembre del 1975. Nel piccolo cimitero del suo paese natale può capitare che lo sguardo del visitatore cada su una tomba, niente affatto vistosa,  simile a tante altre tranne che per una particolarità: sulla lapide, la scritta dice semplicemente: “Geri di Gavinana – Poeta”.
Geri di Gavinana: è questo, infatti, il nome con cui firmava le sue poesie, e quello che compare sulla copertina e sul frontespizio di un volumetto di poesie edito da Vallecchi del 1929, intitolato "Fiori di Bosco". L'autore si firma senza nessun accenno al nome di battesimo, ma sottolineando il luogo d’origine, come se l'essere nato a Gavinana fosse più importante del fatto di chiamarsi Giuseppe. 


In quegli anni, il Geri (nella foto qui accanto, datata 1916, lo vedete con il fratello Guido)  era un giovane che saliva verso la quarantina e che lavora nelle Officine di Limestre:  il fatto che un operaio, un semplice operaio  non un dirigente o un capo ufficio, in anni in cui i meno abbienti non andavano a scuola e non leggevano libri, scrivesse poesie, era sicuramente qualcosa di insolito. Infatti, il Geri frequentò soltanto fino alla terza elementare: per il resto, fu completamente autodidatta. Chi gli insegnò a scrivere in versi? A sentire lui, nella poesia "La mia scuola" soltanto la natura: 

ci fanno scuola i piccoli animali,
le stelle, il cielo, il mar, la terra, i fiori,
i nostri sensi deboli e mortali.

Sono senza cultura, dice il poeta. Sembra appartenere a quella schiera  dei poeti illetterati che si sfidavano a disturne cantando in ottave, e che sapevano improvvisare strofe semplicemente ripetendo come verso iniziale quello finale di chi li aveva preceduti.

Guglielmo Lera, in un suo scritto dedicato al Geri, dice: «Se a questa tradizione di poesia popolare, se all'improvvisatore di rime dolci e bizzarre dovessi dare un volto, se di una Beatrice di Pian degli Ontani dovessi cercare le ragioni del suo continuo rivolgersi al canto, oggi, a tanti anni di distanza, e in un mondo così mutato, andrei a cercare del Geri». Il Geri, però, rispetto alla Bugelli aveva qualche marcia in più. Non si limitava all'ottava rima, ma ricamava sonetti e canzoni, alternando i metri, modellando su poeti come il Pascoli e il Carducci la sua ispirazione spontanea. 

Il confronto fra le ottave di Beatrice di Pian degli Ontani e composizioni di “Fiori di bosco” fa capire che il Geri, benché autodidatta e dalla "testa dura", come lui dice, fosse un uomo di migliori letture. Poche, forse, ma buone.  Luigi Russo testimonia che "ha letto qualche poeta moderno, Giusti, Leopardi, Carducci, Pascoli, ma così a tratti, senza impegnarsi in uno studio e in una passione letteraria per la loro opera".

"La mia casa", per esempio, è una poesia composta di quartine di endecasillabi. Un metro usato da Pascoli ne "I Canti di Castelvecchio", per esempio nella poesia "Il ritratto”. Si tratta di un metro eminentemente narrativo, adatto per rievocare ricordi. Il Pascoli lo usa appunto per questo, e il Geri legge, impara, e lo fa proprio: sarà pure un cantore istintivo, ma conosce la metrica. Gli viene bene a orecchio, ma se la studia anche sui libri di poesia. Scrive il Russo: «La poesia del Geri, è arguta e fresca. Senza pretese, poesia elementare del popolo, ma merita accoglienza dal lettore proprio per quel principio d'arte che la trasfigura. Se nel Geri non c'è elaborazione letteraria, c'è pure una capacità di elaborazione artistica. E se egli vi giunge non per curriculo di studi, questo non importa, vi giunge per assidua meditazione, e per affinamento interiore. Anzi, i poeti, per giungere all'arte, non conoscono altra via che questa».

I versi del poeta affrontano i temi dei sentimenti universali, del trascorrere del tempo, dei misteri della vita e della morte, ma anche propongono scherzi e strambotti. Il modo d'approccio del Geri alla materia del suo canto è sempre limpido, cristallino, felicemente ingenuo, naif nella più pura e migliore accezione del termine. Da montanino, appunto, non inteso come uomo grezzo, incolto, ma come spirito semplice ma profondamente spirituale, che giunge all'essenza delle cose grazie a una illuminazione istintiva, non tramite la mediazione delle sovrastrutture culturali e filosofiche.

Come in molta produzione pascoliana, e sicuramente come in “Myricae” ne “I canti di Castelvecchio”, il Geri scriveva liriche sui fatti quotidiani. La poesia per lui non è canto dell'immaginifico, ma della piccola realtà di tutti i giorni. Descritta, per di più, in estrema sintesi. Le "piccole cose" sono anche gli spiritosi bozzetti di vita vissuta.

A Pascoli soprattutto Giuseppe Geri cerca di avvicinarsi nell'uso della rima e della metrica, oltre che delle tematiche. Pascoliana è, nel Geri, anche l’ossessione ricorrente verso il ricordo dei morti, o il pensiero che corre alle dolorose memorie famigliari che cementano il rapporto con il “nido” casalingo. Ma  mentre il Pascoli, coltissimo e letterato, anche quando parla della cavallina storna pensa in realtà a Xanto, il cavallo parlante di Achille nell'Iliade di Omero, il Geri no. Lui, quando parla del suo cane Leo, scomparso nel bosco e mai più tornato, pensa davvero a Leo, e la commozione che traspare dai suoi versi è sincera e comunicativa, si trasmette a chi legge anche se non tutti gli accenti sono giusti, anche se l'andamento è discontinuo.  Se il Geri perde sul versante tecnico, della ricerca e della sperimentazione, delle sottigliezze dell'arte della versificazione, nei dattili e negli spondei insomma, guadagna in immediatezza, in sincerità, in comunicatività. 

Una delle prime raccolte poetiche di Giovanni Pascoli si intitola “Myricae”. Le myricae sono arbusti bassi, umili, detti anche “cesti” o “stipe”. Sarà un caso che il Geri scelga come titolo per il suo libro proprio “Fiori di bosco”, accostando, volontariamente o meno, la sua raccolta a quella pascoliana?
Si potrebbe accostare il Geri a Trilussa: ma Trilussa popolareggiava per scelta stilistica, il Geri era davvero popolaresco. Gli animali del Geri, come Leo o il gallo re del pollaio, sono veri animali, quelli del Trilussa sputano sentenze.

Spesso la poesia del Geri è poesia della memoria, e di nuovo viene in mente il Pascoli, che sosteneva come la poesia "non è se non ricordo", recupero delle emozioni perdute. La poesia è nelle cose, e il poeta ha il dono magico di una vista a raggi X che la sa cogliere. Ci sia concesso un altro paragone pascoliano, breve ma molto significativo. Nella raccolta pascoliana "Myricae” è contenuta una ballata piccola di endecasillabi intitolata "Il tuono".  Sono solo sette versi che dicono così:






E nella notte nera come il nulla,

a un tratto, col fragor d'arduo dirupo
che frana, il tuono rimbombò di schianto:
rimbombò, rimbalzò, rotolò cupo,
e tacque, e poi rimareggiò rinfranto
e poi vanì. Soave allora un canto
s'udì di madre, e il moto di una culla.





Si noti come il verso "rimbombò, rimbalzò, rotolò cupo" faccia il verso al rumore del tuono. C'è un uso onomatopeico delle parole. Una sapienza letteraria. Notiamo anche il fatto che dopo il tuono, il ritorno alla tranquillità è testimoniato dal canto di una mamma al suo bambino svegliato dal fragore del temporale. Ed ecco ora il Geri, ne “Il temporale”:

Scroscia sui vetri con rombo sonoro
la grandine e il vento sconquassa le gronde.

Anche in questo caso l’onomatopea è evidente: “scroscia sui vetri” riproduce efficacemente il rumore della pioggia sulle finestre, e “rombo sonoro” fa il verso al tuono tanto quanto “sconquassa le gronde” lo fa al vento. Ma ecco che il temporale si placa:

Cessata è la pioggia; un vecchio per mano
tenendo un fanciullo che appena cammina,
nel fango melmoso ne vanno pian piano
mirando nel cielo una striscia turchina.

La recuperata serenità, che per il Pascoli è significata dall’immagine della madre che canta la ninna nanna per far riaddormentare chi giace nella culla, per il Geri è rappresentata dal nonno che porta a spasso tenendolo per mano “un fanciullo che appena cammina”. Le similitudini sono evidenti. Nel poeta dei “Fiori di Bosco”, però, non ci sono arditezze letterarie, c'è solo sapienza descrittiva e spontaneità di immagini. Ma l'immagine del ritorno alla tranquillità, il richiamo ai bambini, alle "piccole cose", agli affetti, è un tratto comune alla sensibilità dei due poeti. Viene quasi da chiedersi che razza di versi avrebbe scritto Giuseppe Geri se solo avesse studiato quanto il Pascoli. 

Il poeta lavorò come operaio nelle officine di Limestre fino agli Anni Trenta, poi per motivi di lavoro fu costretto a trasferirsi a Fornaci di Barga (nella foto qui accanto), insieme ad altri del paese. Il Geri ci rimase male, visse la cosa come una ingiustizia. Se ne lamentò. Però partì. Per un uomo attaccato quant'altri mai al suo paese natale fu indubbiamente uno strappo lacerante. Tuttavia egli fece spesso ritorno a Gavinana, quando il lavoro glielo permetteva, e anche a Fornaci di Barga non mancò di conquistare la simpatia degli abitanti del luogo, continuando a poetare nella sua nuova casa.

Ne pubblicò alcune su riviste e su giornali, ma non compilò più nessun libro. Nel 1994 ne è uscito uno postumo, a cura di Milvio Sainati. “80 anni di poesia”, questo il titolo, si fregia anche di una prefazione di Gian Luigi Ruggio, all’epoca conservatore di Casa Pascoli a Castelnuovo. Una caratteristica del tutto singolare del modus operandi del Geri era, soprattutto negli anni trascorsi in Garfagnana, quello di scarabocchiare poesie improvvisate su foglietti di carta volanti, che poi il poeta regalava agli amici e, talvolta, anche agli sconosciuti. Alcuni venivano recuperati, e ci fu chi cominciò a raccoglierli e a batterli a macchina. Laura Tonietti, a cui si deve rendere merito per aver svolto questa attività, regalò poi gli originali del Geri a Milvio Sainati, che mise insieme circa 150 manoscritti. Ma chissà quanti ce ne sono in giro. 

Per tutta la vita, Giuseppe Geri fu afflitto dal “mal di vivere”. Ne “La mia preghiera” sono efficacissimi i due versi con cui, rivolgendosi a Dio, lo descrive.

Spengi dal petto mio questa fornace,
che lenta mi divora.


E spessissimo tornano alla ribalta i temi dell’amarezza, dell’angoscia, della vita resa intollerabile dal peso dei pensieri, dei dolori, della disperazione. Da questo punto di vista, come interpretare invece il Geri comico, il Geri dello strambotto e della facezia?  L’arguzia è, per il poeta gavinanese,  una difesa contro il male oscuro, un modo per esorcizzare la depressione. Spesso, quando si accorgeva che una poesia faceva commuovere, se ne usciva con una battuta o un’immagine divertente per spezzarne l'amarezza. La sia ironia non è però mai caustica, mai satirica e soprattutto mai politica. 

E’ bonaria, da uomo saggio che conosce il mondo ma che il mondo guarda da lontano, come spettatore disilluso:

E guardo questo mondo un po’ in cagnesco
che mi sembra sia tutta una finzione.

Il Geri è in fondo un uomo segnato dal destino perché per lui il poetare è come una "condanna", ciò che lo rende diverso dagli altri.  E’ un poeta semplice, ma non semplicione. Sapeva essere originale, interveniva con tocchi di inaspettata genialità.  La tristezza e le difficoltà della vita aumentano con l’età. Il Geri è un poeta vero, un poeta nato, ma anche un uomo comune, toccato dai nostri stessi problemi: le tasse, il carovita. E' il poeta del quotidiano. Ma anche capace di esprimere e rappresentare con estrema e drammatica efficacia la vita di un pensionato che vive solo, privo di illusioni.  





Giuseppe Geri morì nel 1975, e come aveva chiesto nelle sue poesie tornò a Gavinana per esservi sepolto. Ma lasciò un testamento, un testamento spirituale: la sua opera poetica, quella di un uomo che non ha nulla da lasciare agli altri se non la testimonianza di una vita spesa nella modestia e nella poesia.



GERI DI GAVINANA 
POESIE


AI MIEI LETTORI

Se scrivo comico mi chiaman matto,
se scrivo serio son pessimista;
c'è pure chi mi tien per un artista,
c'è chi mi dice che non valgo affatto.

Io, per uscire da quell'imbroglio,
scrivo quando mi pare e come voglio.




EPIGRAMMA

Se qualcuno a tempo perso
pur leggessi qualche verso
che distrattamente ho fatto,
certamente e con ragione
gli farebbe l'impressione
che nel mondo fossi un matto.
Ma di questo mi consolo,
che di matti non son solo.




LA MIA SCUOLA

Nel mondo non studiai che la natura,
dove mi posi tanto a meditare,
dove conobbi nel fatale andare
sorrisi, le speranze e la sciagura.

Non ebbi scuola e son senza cultura,
non feci che la terza elementare,
ma tante cose pur potei imparare
per quanto avessi assai la testa dura.

S'impara più e più si schiude i cuori
a contemplar le cose naturali,
che a intisichire in mezzo ai professori.

Ci fanno scuola i piccoli animali,
le stelle, il cielo, il mar, la terra, i fiori,
i nostri sensi deboli e mortali.



AUTORITRATTO

Non sono bello, non sono brutto,
di color pallido, di viso asciutto,
non porto baffi, la fronte alta
tra la calvizie che più risalta.

Ho il naso grosso, labbro sottile,
l'animo acceso da fiele e bile,
ho i denti radi, franche mascelle,
statura media, di forme snelle.

Son taciturno, camminatore,
dormo pochissimo, conto le ore
son mezzo astemio, mezzo poeta.

Indifferente per la moneta,
sorriso mite, lo sguardo ratto:
è questo identico il mio ritratto.



IO COI FINIMENTI NUOVI

Oggi mi son vestito a tutta festa:
le scarpe bianche, basse col ghettino,
stirato a duro e lucido il solino,
e sulle ventitré cappello in testa.

Ho la giubba alla moda e ben si presta,
i calzon con la piega, il cravattino,
e frullo un elegante bastoncino
passeggiando per via tutto alla lesta.

Ma preferisco i finimenti vecchi:
il mio giubbone lungo e rattoppato
e il cappellaccio a gronda su gli orecchi.

Ma preferisco starmene isolato
in mezzo ai monti, come i saltabecchi,
che vivere così tutto legato.



LA MENDICA

Venne, povera vecchia, alla mia porta,
scalza, tutta lacera e piangente:
chiese la carità... non ebbe niente.
Ed or mi pento; troppo tardi, è morta.
Batteva la campana a lenti tocchi
ed io pentito mi asciugavo gli occhi.


Giuseppe Geri con il cane Leo nel 1920


A LEO

Più non ti vedo, o mio fedele cane,
e sono privo della tua carezza,
manca all'affetto mio quella dolcezza
che sempre viva dentro al cuor rimane.

Quando la coda dimenavi lento,
gli occhi volgevi a me tutto commosso
e, feste e prilli, mi saltavi addosso,
mugolando così tutto contento.

Povero Leo, una mattina scialba
tu mi partisti e più non sei tornato:
invano t'aspettai, e t'ho cercato
su questi monti nella prima alba.

E col tuo nome in cuore e sulla bocca,
confuso errai allor di valle in valle,
tra lo scherno e le beffe della sciocca
gente, che mi ridea dietro le spalle.

E col sorriso della delusione
tornavo a casa sconsolato e stanco,
pensando sempre a te: gentile e bianco,
amico sol fedel del tuo padrone.


LA TASSA SUI CELIBI 

La tassa sul celibato fu istituita il 13 febbraio 1927 dal regime fascista, e interessava i celibi di età compresa fra i 25 e i 65 anni.

Bisogna dare un calcio al celibato
e pigliar moglie anche chi non vuole;
ed ognuno farà quello che puole,
si tratta d’una legge dello Stato.

E chi non piglia moglie vien tassato,
questi sono fatti veri e non parole,
fanno per limitar la tanta prole
che non ha babbo sopra il lastricato.

Una volta la tassa era sui cani,
ma ora si comincia a far progresso,
e l’hanno messa ai poveri cristiani.

Ma io vi parlo chiaro e vi confesso:
a pigliar moglie aspetterò domani,
pagò la tassa, e camperò lo stesso.





LE NOVELLE DELLA NONNA

Al piccolo chiaror d'un lume a mano,
la nonna raccontava le novelle,
un tempo che passò molto lontano;
e noi, seduti intorno alle gonnelle,
attenti si ascoltava a capo chino
sotto la vecchia cappa del camino.
Sotto la vecchia cappa, la fiammella
del lume a mano ci parea una stella.

Morì la nonna, e noi siam fatti grandi:
la cappa del camino nera nera
ferma al suo posto ancor par che domandi
le liete novellucce della sera:
il foco manda ancor qualche favilla,
ma il lumicino a mano più non brilla.
Non brilla più la piccola fiammella,
che a me nel buio mi parea una stella.

Ed or la nonna è morta da tant'anni,
dorme con tanti morti al cimitero,
che sol tra i morti non si trova inganni.
Ah, buona nonna! Ancora nel pensiero
conservo le novelle tue d'un giorno,
che presto volò via senza ritorno!
E ancor vorrei tornar piccol bambino
presso le tue gonnelle e il tuo lumino.



L'ULTIMO CANTO DEL GALLO

Canta gallo, canto a festa
che sarà l'ultimo canto:
domattina la tua cresta
nel tegame bollirà.

Nel pollaio sarà il pianto
tra le tenere galline
nel saper la brutta fine
che il suo gallo subirà.

Canta, gallo mattiniero
che ci svegli ogni mattina,
a cui limpido il pensiero
corre, al canto tuo gentil!

Ma vederti domattina
con la testa penzoloni,
senza penne e senza sproni,
è una cosa troppo vil.

Quante volte, al fido canto,
sono sceso giù dal letto
e, indossato il vecchio manto,
son venuto giù da te!

Ti trovavo ritto in petto
tra le fide tue galline,
tutte vispe a te vicine
che sembravi proprio un re.

Mangerò senza rimorso
le tue cosce saporite,
dove dietro berrò un sorso
del buon frutto della vite.

Ma nel gàrrulo pollaio
sarà morta l'allegria,
del tuo canto arzillo e gaio
sentirò la nostalgia.



Giuseppe Geri davanti alla sua casa, a Gavinana


LA MIA CASA

E' una stamberga stonacata e nera,
dal tetto rosso e piccole finestre,
dove fiorisce intorno le ginestre
sembrandoci un'eterna primavera.

Sorride lieta la gàrrula cicala,
sopra il cipresso canta l'usignolo,
batte l'accetta e canta il boscaiolo
e s'arrampica ognor sopra la scala.

Dove la sera trovo la diletta
madre, al focolare, mesta, assisa,
che sonnecchia, che pensa e che m'aspetta
la poca cena misera e divisa.

Ma quanti affetti alla stamberga nera,
alla casetta vecchia e stonacata
che mi ricorda dell'età passata,
il primo sogno e l'ultima preghiera.

Che mi ricorda quando ancor fanciullo
sul focolar, seduto dopo cena,
mi tingevo le mani alla catena
e questo era per me quasi un trastullo.

Dove studiavo, nelle lunghe sere,
la noiosa dottrina del piovano:
oh, quante volte avrò pregato invano!
Dove saranno queste mie preghiere?

Allor sentivo raccontar novelle
di streghe e maghi, di regine e fate,
restavo con le braccia spalancate,
prestavo fede a stupide storielle.

Che ingenuo fui! Poco più d'ora,
che streghe e maghi allor tutto credei,
le cose che ora vedo agli occhi miei
sono abisso infernal che mi divora.

Ah! Bei giorni davver lieti e giocondi
che ancor conserva la casetta nera,
e ancor ti vedo maestosa e altera
e ancora più di prima mi confondi.



NATALE

Raccontava una nonna ai nipotini
mentre faceva a lor la ninna nanna:
oggi nacque Gesù nella capanna,
oggi è Natale, festa dei bambini.

Oh, non sentite voi quel dolce suono
che al cuore porta la felicità?
Oggi è Natale, quel Natale buono
che il piccolo Gesù benedirà.

Così gli raccontava la vecchietta
ai bimbi che teneva sui ginocchi,
e li baciava in una forte stretta,
quando una lacrima cadde dai suoi occhi.

Quella lacrima sua, cosa voleva
dire ai suoi nipotini, non lo so.
Forse pensava, forse in cuor tesseva
tutti gli anni migliori che passò?

Forse pensava a quest'altro Natale
che essendo vecchia, non ci sarà più:
posò la mano scarna sul grembiale
e ripeteva ancor: nato è Gesù...



LA CACCIA AL RAGNO

Madonna benedetta del Castagno,
quanto lavoro e quanta confusione
per dar la caccia a un disgraziato ragno!
C'era, niente di meno, sei persone.

Chi con le molle, e chi con la paletta,
chi col martello e l'altro la granata,
armati tutti peggio d'una armata,
ci mancava fucile e baionetta.

Esce dal buco, busse forte dài,
scappa di sotto, vai di là, sfrucòna!
E tutti intorno al fuoco, a far corona
con l'armi alzate: dove sarà mai?

E il ragno, impaurito, su pel muro
tra un colpo e l'altro si salvò in soffitta:
e tutta quella gente restò ritta
con un tanto di naso, e a muso duro.



UN TEMPORALE

Scroscia sui vetri con rombo sonoro
la grandine e il vento sconquassa le gronde
dei tetti, nei campi confonde
il grano tra l'erba, e gàrrulo un coro
di uccelli di sente, nascosti sul tetto
tra un tegolo e l'altro vicini al camino:
di sotto la chioccia si affaccia un pulcino
e il trillo si sente di qualche galletto.
Il tempo minaccia più forte e fatale,
e l'aria più nera, più turbina il vento:
tra tuoni e tra lampi che fanno spavento
sembra che sia il diluvio universale.
E l'acqua dei campi si allarga alle strade,
più torbida scende con cupo rumore.

La pioggia rallenta, rallenta il terrore:
le nuvole tornan più chiare, più rade.
Cessata è la pioggia; un vecchio per mano
tenendo un fanciullo che appena cammina,
nel fango melmoso ne vanno pian piano
mirando nel cielo una striscia turchina.

ILLUSIONI

Quando siam giovani
quante illusioni
di questa vita
che ci si fa!
Poi non ci restano
che delusioni,
quando con gli anni
più si va in là.
Io che sognavo nella mia mente
tutta una vita color di rosa,
or di quel sogno non resta niente
neppur la minima, piccola cosa.
E' sempre il cielo bello e sereno,
come a quei tempi, senza cambiar:
ma c'è del fango sopra il terreno,
ma c'è del fango da calpestar.



LA FONTANA DELL'AMORE

La bella fontanina dell'amore
che butta l'acqua tutto il giorno, fresca,
la gente che ci va, vattelo a pesca,
ci va con tutti a rinfrescare il cuore.

Le belle coppiettine innamorate
vanno alla fontanina nell'estate
e con la scusa, poi, della fontana
giù sopra l'erba, nella tramontana.

Se quella fontanina poi parlasse
quante cose avrebbe da narrare:
direbbe cose grandi come il mare

e ne direbbe tante molto grasse.
Ma la fontana, anche se trabocca,
guarda, sorride e tiene l'acqua in bocca.



UN FATTO COMICO

Mentre un signore stava lì seduto
a prendere il caffè dall'Aladino,
un cane, poverino,
viene di fuori e subito dà il fiuto.
Forse sognando qualche cagna bella
alza la cianca e fa una pisciatella.

E gliela fece sopra i pantaloni,
sopra le scarpe, sopra anche l'ombrello,
e un altro cane, subito anche quello,
era già pronto a far le sue funzioni:
ma non fa in tempo a fare la pisciata
che subito gli arriva un'ombrellata.

E' stato un fatto comico un po' strano
proprio degno di fare una risata,
poiché nel dare al cane l'ombrellata,
l'ombrello rotto gli rimane in mano
e quel signore si trovò ridotto
coi piedi molli e con l'ombrello rotto.




COME PASSO LA VITA

Tutte le sere all'otto vado a letto,
ma con questo non sono un dormiglione:
passo nottate sveglio sul saccone
che a volte perdo il ben dell'intelletto.

E fo castelli più di un architetto
ma tutti in aria, senza conclusione;
a volte, sogno d'essere un riccone...
ma mi risveglio sempre poveretto.

Mi par mill'anni di arrivare al giorno
perché finisca quella tiritera
e allora m'alzo, e via, si fa ritorno.

Si spera sempre: chi non muore, spera.
Ma i muriccioli che sono qui intorno,
li frusto tutti, da mattina a sera.



COMPLEANNO

Il primo di novembre sono nato
dell'anno mille e ottocento ottantanove:
quanto di sotto i ponti è già passato
e quante cose vecchie e quante nuove!

Quante illusioni morte nei tramonti
come l'acqua che passa sotto i ponti,
come fosse qualcosa di giocondo
e avessi chiesto di venire al mondo.
Ma quando uno c'è, bisogna che ci stia:
e faccia la sua parte e tiri via.

Poi se dovessi far tutta la storia
dei miei volati compleanni
mi ci vorrebbe buona la memoria
ora che sono un mezzo barbagianni.
Anche se qualche volta mi ci impegno,
sembro lo smemorato di Collegno.

Quando si marcia verso l'ottantina
ogni giorno che va si ruba a Cristo
e sempre quando m'alzo la mattina
dico: "Anche per oggi mi son visto".
Ma un qualche giorno non mi vedo più,
poi, dove vado, lo saprà Gesù.



NECROLOGIO

Vidi un giorno sul giornale
che tra i morti un certo tale
non soltanto aveva il nome
ma lo stesso mio cognome,
proprio uguale come il mio:
ma però non ero io!

Nel veder Giuseppe Geri
in caratteri ben neri
c'è mancato poco o niente
mi prendesse un accidente.
Si capisce, lì per lì:
poi la cosa si chiarì.

Vidi subito che un altro,
fosse più o meno scaltro,
fatto più o meno tondo,
era andato all'altro mondo.

Quel che penso è che di là
se non guardano l'età,
faran certo confusione
nel registro di ammissione.

Tante volte non vorrei,
ripensando ai fatti miei,
di trovar, quando chiamato,
il mio posto già occupato!


UN BUON CONSIGLIO

Diceva un vecchio prete a un contadino:
"Perché tanti figlioli hai messo al mondo?
Il primo, dopo subito il secondo,
il terzo, il quarto, che ti par pochino?

Il quinto e il sesto... fai come il molino:
piano, figliolo mio, gira un po' al tondo!
Io ci scommetto quando sarai in fondo
non avrai posto intorno al tavolino.

"Mi compatisca, sa, signor Priore,
lo vede, vengan giù fatti col pennello:
la volontà di Dio non è un errore!"

"Lo so" rispose il prete, "in quanto a quello
anche l'acqua la manda giù il Signore
ma la gente però porta l'ombrello!"



TESTAMENTO


Lascio per mio ricordo a chi li vuole
il mare, i monti, il canto degli uccelli.
Vi lascio un pizzicotto di capelli,
insieme a quelli che non batte il sole.
Vi lascio, se volete, anche il diritto
di tutte le fregnacce che io ho scritto.

Non vi credete di trovar quattrini,
son pensionato della previdenza:
abituato come sono a fare senza
si fischia sempre come i cardellini.
Quei pochi che mi danno li consumo
a mangiare un boccone, e un po' di fumo.

Lascio di cuore tutti i miei bagagli,
scatole tutte rotte, libreria,
casse, cassetti pieni di ritagli,
fogli strappati da buttarsi via.
Qualche vestito pieno di tignole
e scarpe vecchie fin che se ne vuole.

Poi lascerò al becchino le mie ossa
e lui potrà far quello che gli pare;
così se torna a spalancar la fossa
perché ci ha qualcuno ancor da accomodare,
dopo dieci anni prenderà il bastone:
"Vai fuori che non paghi la pigione!"




DISTRAZIONI


D’ora in poi rovini il mondo
io non me la prendo più:
resterò sempre giocondo
quanto è ver che c'è Gesù.

Che m'importa a me se Tizio
l'han portato all'ospedale,
e se Caio per indizio
l'hanno messo in tribunale?

Se quell'altro è già in prigione
qualche volta sortirà:
per un povero minchione
non si muove la pietà.

Tanto vedo che la gente
non si scrolla mai per me:
se mi prende un accidente
me ne mandano anche tre.

D’ ora in poi rovini il mondo
io non me la prendo più:
quando trovo un sasso tondo
mi ci fermo a seder su,

o mi appoggio al campanile
senza rischio di cascar,
quando in corpo ho della bile
voglio ridere e cantar.