mercoledì 30 settembre 2015

TEX IL GRANDE!




TEX IL GRANDE!
di Claudio Nizzi e Guido Buzzelli
Nicola Pesce Editore
2012, cartonato
260 pagine, 24 euro

Il primo dei Texoni, uscito originariamente nel giugno del 1988, viene riproposto in versione cartonata con il corredo di un ricco apparato critico. A Matteo Stefanelli e Gianni Brunoro è affidato il compito di introdurre l'opera, illustrata dal tratto pittorico e personalissimo di Guido Buzzelli (Roma, 1927; ivi, 1992), un autore apparentemente lontano anni luce non solo dal western, ma anche dal segno realistico tradizionalmente richiesto da una serie come Tex.  Buzzelli veniva da esperienze eterogenee ma tutte caratterizzate dal grottesco sia nei testi (sempre suoi) che nei disegni (“La rivolta dei racchi” ne è un esempio), pubblicate su riviste “alternative” (come, appunto, “Alter” Linus). Basti pensare che contemporaneamente a Tex disegnava tavole ironiche e dissacranti su “Satyricon”, il supplemento domenicale di Repubblica, di cui era uno degli autori di punta. Eppure, dedicandosi ad Aquila della Notte, trasferisce il suo luciferino senso del dinamismo tipico del grottesco al servizio di una avventura tra le foreste dell’Oregon, dove ogni personaggio risulta animato da una incredibile carica vitale e da una straordinaria espressività. 

Nei Texoni non è grande solo il formato. E’ grande anche l’idea che c’è dietro. E grandi, proprio grandi, sono i nomi degli autori chiamati a concretizzarla. Nella sua presentazione al primo di questi volumi, disegnato da Guido Buzzelli con il suo personalissimo tratto, Decio Canzio così spiegava: “L’idea è quella di chiedere ad alcuni ‘grandi’ del disegno di misurarsi con il personaggio di Tex Willer, per offrire ai lettori nuove interpretazioni del protagonista, dei suoi comprimari e del suo mondo”. 
La storia, scritta da Claudio Nizzi e intitolata “Tex, il grande!”, era pronta già da tempo, negli archivi della Casa editrice, e quando ero stata commissionata a Buzzelli il progetto dei Texoni ancora non esisteva. E’ lo stesso disegnatore a raccontare come andarono le cose, in una intervista pubblicata sul n° 22 di Fumo di China (prima serie) datato febbraio 1995: “Incontravo spesso Sergio Bonelli nelle varie manifestazioni – spiega Buzzelli - Una volta, cinque anni fa, mi propose di fare Tex. Io gli promisi che l’avrei fatto volentieri, ma poi non ho mai trovato il tempo. Un anno fa decisi di telefonargli, domandandogli se era ancora disponibile a farmi farmelo fare. Poi, quando l’ho fatto, era un’enormità di lavoro: 224 pagine. L’ho fatto meglio che potevo, ma penso che non ne farò un altro. Il testo è molto buono, la sceneggiatura è perfetta, quindi l’ho disegnato volentieri. Inizialmente ho fatto del mio meglio per disegnare come Galleppini e gli altri disegnatori abituali (Bonelli me lo aveva raccomandato!); ma questa è stata un’impresa quasi impossibile, perché se uno vuol fare un disegno agile e scorrevole non ce la fa a seguire un altro stile, un altro tratto. Infatti molte cose del mio Tex penso che disorientino i lettori abituali. Bonelli lo teme, e ha detto che forse farà un’edizione speciale, un volumetto doppio, nel quale dirà appunto che è un Tex particolare, fatto da Buzzelli”.  

Dunque, inizialmente, la proposta fatta a Buzzelli, prevedeva la pubblicazione della storia, una volta realizzata, nella serie regolare. Ma il disegnatore, per quanto avesse cercato un approccio a Tex che si mettesse al servizio dell’eroe e si inserisse nel solco di una tradizione che andava rispettata, non riuscì a non dare alle proprie tavole l’impronta particolarissima del suo stile. “Guido Buzzelli – scrisse del resto Decio Canzio nell’introduzione al suo Texone – è un iconoclasta aduso a rompere i modelli consolidati e tradizionali per proporre innovazioni nelle forme e nei contenuti del disegno”. Tex, dunque, è l’icona affidata all’iconoclasta. Che però se ne innamora e anziché distruggerla la trasforma, le infonde energia vitale, movimento, capriccio. 
Di fronte al risultato, Bonelli capì due cose: la prima, che non si potevano pubblicare le tavole di Buzzelli nella serie regolare; la seconda, che si trattava comunque di un lavoro superlativo, che doveva per forza essere pubblicato. Si trattava solo di trovargli uno spazio adatto, e un’occasione. L’occasione la offrì il calendario, di lì a poco: se “Tex il grande!” era già pronto nel 1985, nel 1988 c’erano da festeggiare i primi quaranta anni di Aquila della Notte, la cui prima apparizione risaliva appunto al 1948. Così, ecco l’idea di un albo speciale, di grande formato. Ed ecco anche l’idea di non limitarsi a un albo soltanto, ma di inaugurare con il volume di Buzzelli una intera serie in cui altri artisti come lui potessero confrontarsi con il mito di Tex, nella speranza (o nella certezza) che tanti altri avrebbero potuto raggiungere risultati simili. 
Non a caso il progetto si concretizzava nel momento in cui la Casa editrice di Sergio Bonelli, portabandiera del fumetto popolare in Italia, ma con all’attivo numerosi esperimenti sul terreno del fumetto “d’autore” (dalla collana “Un Uomo un’Avventura” alle pubblicazioni legate alle riviste “Orient Express” e “Pilot”), comincia a a proporre, il “popolare d’autore”. 
L'edizione di Nicola Pesce propone anche tutta una serie di schizzi di prova anche a colori, mentre la storia vera e propria viene riprodotta su carta dalla cromatura leggermente ingiallita per restituire, nonostante la cartonatura che nobilita il volume, l'effetto "popolare" dell'originale.


martedì 29 settembre 2015

IL VECCHIO CHE LEGGEVA ROMANZI D'AMORE



IL VECCHIO CHE LEGGEVA ROMANZI D'AMORE
di Luis Sepulveda
Guanda, 2004
132 pagine

Il titolo trae in inganno. Infatti, ero diffidente nell'approcciarmi a questo libro temendo in un polpettone romantico-sentimentale-intimista o, peggio, intriso di politicamente corretto o di terzomondismo (il mondo, per me, è uno solo e tutti facciamo parte di quello lì). Invece, ho scoperto un romanzo affascinante, avvincente, emozionante, con personaggi vivi e indimenticabili (a partire dal dentista della scena iniziale, che ha fatto sentire male in bocca anche a me, che soltanto ne leggevo). Nelle pagine di Sepulveda c'è tutto quello che un lettore come me può desiderare: ambientazione esotica (la foresta amazzonica in territorio ecuadoriano), avventura (la caccia a una belva feroce), sangue e morte, descrizione di popoli lontani (gli Shuar, o Jivaros come sono più noti qui da noi), dramma e umorismo, introspezione psicologica, tensione emotiva e perfino una morale da trarne perfettamente condivisibile perché spirituale e non ideologica. L'Amazzonia descritta da Sepulveda in tutta la sua bellezza e la sua crudità (più che crudeltà) è la vera protagonista del racconto, ed è essa stessa un motivo per cui, per esempio, chi si è nutrito delle storie di Mister No non dovrebbe perdersi questo romanzo. Il vecchio a cui allude il titolo è Antonio José Bolívar Proaño, un cacciatore che vive nella piccola comunità di El Idilio, dove si è ritirato dopo aver trascorso molti anni della sua esistenza tra gli indios Shuar e aver imparato da loro a sentirsi parte della foresta, a respirare con essa, a pensare come pensano gli animali e le piante. Tornare fra i bianchi è stato per lui inevitabile, dopo aver commesso involontariamente una sorta di sacrilegio agli occhi degli indigeni, che piangono per lui e con lui quando devono separarsi. E a El Idilio, il suo unico passatempo, che diventa una passione, è quello della lettura di romanzi che narrano di amori travagliati, che fanno soffrire, quasi una sublimazione del suo antico matrimonio, finito male, consumato senza baci. Gli abitanti di El Idilio, rozzi e ignoranti, sono una eterogenea comunità di gente condannata a vivere in una terra ostile che non capisce e contro cui lotta, mentre gli Shuar ci vivono in simbiosi. Il sindaco, in particolare, grasso e odioso, soprannominato "Lumaca", è il simbolo dell'incapacità dei bianchi di intendere i linguaggio della natura. Da qui i suoi frequenti scontri con Antonio José, che spesso gli dimostra la sua incompetenza. Ma quando El Idilio viene minacciata da un tigrillo (un grosso felino simile a un giaguaro) che comincia a uccidere mercanti, cercatori d'oro e viandanti nella foresta, l'esperienza del vecchio diventa indispensabile. A scatenare la furia del tigrillo, una femmina, è stato un "gringo" cacciatore di pellicce, che le ha ferito il compagno e ucciso i cuccioli. Dunque, la violenza della natura è stata scatenata da uno stupro della natura stessa. Vista l'impossibilità di riuscire, con una battuta di caccia in più persone, a fermare il felino, astuto e intelligente quant'altri mai, il sindaco incarica Antonio José di tentare da solo, promettendogli un grosso premio in denaro se riuscirà a riportare la pelle dell'animale. Il vecchio accetta, e ingaggia una lotta con il tigrillo che tiene con il fiato sospeso, fino al duello finale, la cui conclusione rende inevitabile al lettore fermarsi a riflettere.

lunedì 21 settembre 2015

LETTERA AI TRUFFATORI DELL'ISLAMOFOBIA





Charb
LETTERA AI TRUFFATORI DELL'ISLAMOFOBIA
CHE FANNO IL GIOCO DEI RAZZISTI
Piemme
 2015, brossurato,
 90 pagine, 14 euro

"Il manifesto postumo del direttore di Charlie Hebdo", c'è scritto in copertina. E sul retro: "Charb ha consegnato all'editore questo libro due giorni prima di essere ucciso". 
Un'altra scritta: "Illuminante, pungente, satirico, profetico, racconta la gioiosa lotta di 'Charlie Hebdo' e ci riguarda tutti".
Naturalmente il punto di partenza è la frase di Stéphane Charbonnier (1967-2015) che tutti ricordano: "Preferisco morire in piedi che vivere in ginocchio". La sua ultima "Lettera" dovrebbe essere presa in visione dai tanti che hanno voluto distinguersi dallo slogan "Je suis Charlie" che venne coniato subito dopo la strage di Parigi. Ecco alcuni estratti di ciò che scrive Charb, a ciascuno decidere che giudizio darne.
"Se pensi che criticare le religioni sia una forma di razzismo, se pensi che l'umorismo sia incompatibile con l'islam, se pensi che i musulmani non siano in grado di andare oltre il senso letterale di un messaggio, allora buona lettura, perché questo libro è stato scritto per te".
"Non c'è niente da negoziare con i fascisti".
"Quando una donna velata viene insultata e aggredita perché porta il velo secondo l'usanza musulmana, il militante contro l'islamofobia sta con la vittima perché lei rappresenta l'islam. Non perché è una cittadina che è stata aggredita a causa delle sue credenze religiose da un fascista".
"Che dei razzisti siano in più islamofobi ha poca importanza".
"Dio è abbastanza grande da difendersi da solo".
"Se lasciamo intendere che si possa ridere di tutto tranne che di certi aspetti dell'islam perché i musulmani sono molto più suscettibili del resto della popolazione, non li stiamo forse discriminando?".
"E se domani un terrorista vegetariano minaccerà di morte tutti quelli che sostengono che mangiare carne è un piacere, bisognerà portare alle carote lo stesso rispetto che si esige da noi per i profeti delle tre religioni monoteistiche".
"Si lascia intendere che un disegnatore che fa la caricatura di un terrorista islamista voglia rappresentare così tutti i musulmani. Disegnando un jihadista che agisce da jihadista, si getta fango su un miliardo di credenti".
"Non esiste un terrorismo ateo nel XXI secolo. Gli atei subiscono persecuzioni quasi ovunque nel mondo ma nessuno di lori distrugge le opere d'arte create dai credenti".

sabato 19 settembre 2015

TEX L'EROE, LA LEGGENDA


Paolo Eleuteri Serpieri
TEX 
L'EROE, LA LEGGENDA
Lo Scarabeo
2015, cartonato
98 pagine, 12o euro

L'edizione De Luxe pubblicata da Lo Scarabeo del Tex di Paolo Eleuteri Serpieri (uscito originariamente in edicola in un volume cartonato molto più economico e di più piccolo formato con il marchio Sergio Bonelli Editore), si differenzia dalla precedente fin dal titolo: "L'eroe E la leggenda" della prima proposta diventa adesso "L'eroe, la leggenda". Poi, Serpieri ha riscritto in parte i testi, che sono stati dunque riletterati con aggiunte e correzioni. E' inedita anche la nuova copertina.  Le trentotto tavole del racconto, che il disegnatore si è sceneggiato da solo, quale autore completo (privilegio rarissimo in ambito texiano: che io ricordi, concesso soltanto a Fabio Civitelli in precedenza), sono qui riproposte nel formato originale, sia nella versione in bianco e nero che, giustapposta, in quella a colori. In tutto 450 esemplari numerati, con ricco apparato critico e corredo di studi preparatori. Alcune copie possono essere acquisatate, a un prezzo più alto, con un disegno originale. Quelle standard forniscono invece una stampa numerata. Sono onorato di essere stato invitato a scrivere la prefazione, accanto a testi di Angelo Nencetti e Michele Ulisse Lipparini.  Chiaramente il prodotto si rivolge a un pubblico di appassionati e di collezionisti, ma per qualità di stampa, di carta e di rilegatura, decisamente li appaga. All'epoca della prima uscita qualche texiano particolarmente tradizionalista si scagliò contro l'iniziativa editoriale bonelliana ritenendo il Tex di Serpieri fuori dai canoni e dall'ortodossia. Può essere, ma il volume era proposto come "fuori serie" e chiaramente riconoscibile come "fumetto d'autore". Un omaggio di Tex a Serpieri e di Serpieri a Tex. Nella sua introduzione al cartonato Bonelli, Ferruccio Giromini scriveva: "Questa storia andava scritta. E disegnata", dopo aver premesso: "Allacciate le cinture (ovvero i cinturoni): questo nuovo incontro con Tex per qualcuno potrebbe essere scioccante". Perché in effetti di questo si tratta: di un incontro, Non c'è altro modo per poter leggere e valutare le trentotto tavole sceneggiate e illustrate da Paolo Eleuteri Serpieri (a cui è stata concessa la massima libertà) se non considerarle non parte di un "canone" ma frutto di un incrocio. Le strade di due leggende si sovrappongono e per il breve spazio di un bivacco ai margini delle rispettive piste, i protagonisti trascorrono insieme il tempo che basta per creare un paradosso temporale, aprire un varco in un mondo parallelo. Le due leggende sono quella di Tex Willer e di Eleuteri Serpieri, il primo eroe del western della fantasia, il secondo innamorato del West della realtà. La sovrapposizione tra i due crea una storia destinata, appunto, a scioccare i fan dell'ortodossia texiana o gli abitudinari che mal digeriscono i fuori tema troppo azzardati. Un Tex con i capelli lunghi, armato con due fucili, una pistola, un coltello e un tomahawk e che scalpa persino un avversario sconfitto potrebbe far storcere il naso a chi creda che le icone non debbano mai perdere la propria ieraticità. Ma il punto è che il coraggioso volume della Bonelli, un cartonato alla francese messo in vendita in edicola a un prezzo che non teme concorrenza, primo di una serie di proposte del genere che avranno cadenza annuale, è un albo fuori serie, destinato a proporre non una nuova avventura di Aquila della Notte, ma una libera interpretazione di un autore sui cui valore nessuno, neppure i detrattori dell'operazione, può avere il minimo dubbio. Il verbo "interpretare" rimanda immediatamente al talento di un attore che dà vita a un personaggio. Ma, etimologicamente, alla base c’è la preposizione latina inter, che significa “fra” e la radice del verbo greco phrazein, cioè “mostrare”, “spiegare”. Interpretare significa trasmettere, veicolare, illuminare di nuova luce perché altri possano vedere quel che prima non riuscivano a scorgere. Nessun interprete è uguale a un altro e sono stati molti gli interpreti di Tex, coloro cioè che hanno modellato, con i loro pennelli, la dinamica figura di Aquila della Notte, prendendo spunto dalla fondamentale lezione di Aurelio Galleppini, il primo a immaginare le sembianze e a connotare graficamente gli scenari e le atmosfere sul quale farlo muovere. Ognuno di essi, inserendosi nel solco della tradizione, ha “tradotto” alla sua maniera i sogni di Giovanni Luigi Bonelli e dei successivi sceneggiatori. Tutti i disegnatori texiani hanno dato una propria versione dell’eroe. Ma tutti hanno cercato di adeguarsi a un canone e a una ortodossia, peraltro rigidamente salvaguardati da Sergio Bonelli. Paolo Eleuteri Serpieri ha fatto lo stesso, ma conservando il suo stile sia come narratore che come illustratore. Ha reso omaggio alla leggenda, essendo leggenda egli stesso. La fama internazionale che si è conquistato trae origine, del resto, dai suoi racconti del West realizzati molti anni fa e sempre freschissimi, in quanto basati su una ineccepibile documentazione frutto di una appassionata ricerca. Il Tex che compie un atto estremo come lo scalping di un indiano diventa accettabile, benché fuori dal solco canonico, in quanto aderente alla realtà storica della frontiera americana, che non corrisponde del tutto alla “vulgata” fatta da cineasti e scrittori della prima metà del Novecento, da cui hanno attinto, poi, i fumettisti. Se accettate di stare al gioco, preparatevi a leggere non solo una avventura di Tex, ma anche un racconto di Paolo Eleuteri Serpieri. Un esperimento emozionante per chi riesce a cogliere il bello del gioco narrativo, grafico e letterario, ed apprezzare, oltre al racconto, la mano dell'autore. In questo caso, Autore con la A maiuscola.

sabato 12 settembre 2015

L'AVVERSARIO



L'AVVERSARIO
di Emmanuel Carrère
Adelphi
2013, brossurato
180 pagine, 17 euro

Lo straordinario talento di Carrère quale cronista in grado di trasformare i fatti di cronaca o i personaggi storici in ipnotica letteratura, in questo libro si applica all'incredibile vicenda di Jean-Claude Romand che, nel gennaio del 1993 a Prévessin-Moëns, in Francia, uccise i genitori, la moglie e i due figli piccoli con la più assurda delle motivazioni: tutto ciò che essi sapevano della sua vita era falso. Dopo aver frequentato per due anni la Facoltà di Medicina di Lione, Romand non era stato ammesso al terzo anno ma aveva mentito annunciando di avercela fatta, per non deludere il padre e la madre. Da quel momento in poi aveva costruito attorno a sé una stupefacente montagna di bugie, facendo credere a tutti di essersi laureato e di aver trovato un impiego a Ginevra presso l'Organizzazione Mondiale della Sanità. Niente di vero.Tutti i giorni partiva per il presunto luogo di lavoro, mentre invece girava per i boschi o bivaccava nei bar o nei parcheggi. Anche dopo essersi felicemente sposato e aver messo al mondo due figli, ha continuato a vivere una vita immaginaria, perfetta in ogni particolare ma assolutamente falsa. Nessuno sapeva che lo stipendio che Jean-Claude portava a casa era frutto di raggiri e inganni che lui architettava ai danni di amici e famigliari, ottenendo soldi in gestione che egli affermava di poter far fruttare nelle banche svizzere. Quando, dopo vent'anni, la verità stava per venire scoperta, Romand ha sterminato la famiglia e ha tentato (o forse solo simulato) il suicidio. Carrère ha intervistato l'assassino, ha seguito il processo, ha visitato i luoghi dall'incredibile vicenda e poi, senza enfasi ma con profonda partecipazione al dramma, ha scritto il suo libro che indaga su come possa essere scattata nella mente di un uomo una simile trappola. "L'avversario" a cui allude il titolo potrebbe essere il Nemico per antonomasia, il diavolo il cui principale attributo è di essere bugiardo e ingannatore, ma secondo me è la nostra Metà Oscura, quella che si agita nella mente di ciascuno di noi, più o meno sopita. La narrazione non si compiace mai del truculento o del macabro, ma allo stesso tempo non è fredda come un rapporto giudiziario o un referto autoptico.  Scava con partecipazione e umanità nella psicologia dell'omicida, per comprenderla senza giustificarla, e lettura ne risulta angosciante non soltanto perché i fatti narrati sono tragicamente veri, ma anche e soprattutto perché non si può fare a meno di chiedersi quanto della nostra vita così come appare agli occhi degli altri sia vera e quanto assolutamente simulata. Di Carrère sono consigliatissini tutti i libri, in particolare "Il Regno", "Limonov" e "La settimana bianca".

mercoledì 9 settembre 2015

LE TIGRI DI MOMPRACEM




LE TIGRI DI MOMPRACEM
di Emilio Salgari
Vallardi
1974, cartonato
366 pagine, 3000 lire 

Si tratta del primo romanzo del ciclo malese, in realtà il secondo se si vuol considerare "I misteri della Jungla Nera" una sorta di prequel: comunque sia, è quello dove compare per la prima volta il personaggio di Sandokan. A seguire, altri nove volumi avrebbero composto la saga, fino all'ultimo intitolato "La rivincita di Yanez". Al suo primo apparire, a puntate sulla rivista "La Nuova Arena", fra il 1883 e il 1884, il racconto aveva come titolo "La tigre della Malesia" e rappresentò una delle primissime prove del narratore. Soltanto nel 1900 uscì in volume con il titolo definitivo. Del resto, il volume successivo si sarebbe chiamato "I pirati della Malesia". 

Davanti alla prosa di Salgari si resta incantati come di fronte alla potenza di un'orchestra sinfonica che esegua una impetuosa e trascinante partitura d'opera lirica. Tutto è formidabile, roboante, turbinoso. I sentimenti, le emozioni, il coraggio, l'ardire, sono potenti. Gli scenari, il mare, le isole, i venti e le tempeste stordiscono per bellezza o per potenza. Sandokan è una sorta di divinità biblica che dispensa premi e punizioni, che pretende e ottiene fedeltà assoluta, che richiede sacrifici umani. La mistica del politicamente corretto è (fortunatamente) di là da venire e il "Capitano" (questo il soprannome dello scrittore) può usare frasi che oggi suonerebbero razziste o usare come eroe un pirata spietato che ha mietuto centinaia di vittime. Tuttavia, la Tigre della Malesia non è un predone assassino, è un vendicatore. L'inglese James Brook, detto "il raja bianco", gli ha sterminato la famiglia, alleato con spagnoli e olandesi, e lo ha spodestato dal trono di un regno del Borneo, di cui era l'erede. Il padre di Sandokan, sovrano di quel reame, si chiamava Kaigadan (lo si saprà nei romanzi che compongono il seguito della saga). Unico scampato alla strage dei suoi famigliari e costretto a fuggire, il principe giura vendetta contro tutti i colonialisti occidentali (da qui il dibattito, assolutamente stupido, se si tratti di un eroe di "destra" o di "sinistra", con argomenti a favore e sfavore dell'una e dell'altra ipotesi). Il suo obiettivo non è vivere da pirata ma riprendersi il suo regno, cosa che avverrà in "Sandokan alla riscossa". 

Strano ma vero, egli non è malese (lo dice nel romanzo) ma indonesiano. Di sicuro non è indiano e dunque non può avere i lineamenti di Kabir Bedi, nonostante ormai tutti lo identifichiamo con quell'aspetto (e va pure bene). Un'altra cosa che si scopre leggendo "Le tigri di Mompracem" è che Marianna, la "Perla di Labuan", la ragazza di cui il pirata si innamora follemente, è nata a Napoli (o quanto meno, in una località del Golfo) da madre italiana e padre inglese. Rimasta orfana in tenera età, è stata affidata a undici anni all'unico parente rimastole, lo zio James Guillonk, che la porta con sé nel Borneo. Colpisce il fatto che, quando Sandokan la vede, lei abbia solo "sedici o diciassette anni". Oggi si tratterebbe di un amore proibito, ma l'adolescenza come la concepiamo noi è frutto del Ventesimo Secolo. "Le tigri di Mompracem" non raccontano imprese di pirateria (se non un breve abbordaggio iniziale) ma del proposito del protagonista di smettere i panni del pirata e ritirarsi a vita privata, abbandonando il suo covo di Mompracem. 

Il romanzo infatti inizia con il desiderio quasi ossessivo di Sandokan di vedere Marianna, la cui bellezza gli è stata descritta, evidentemente con il pur segreto desiderio che capiti quello che poi effettivamente succede: lui si innamora, lei contraccambia. Amore di quelli che sconvolgono le menti, ovviamente, di fronte ai quali non ci sono scogli che possano arginare il mare. Appunto per questo l'eroe non ci fa proprio una bella figura agli occhi di uno che volesse valutarne il comportamento dal punto di vista razionale: pur di incontrare la Perla di Labuan, che ancora non conosce, e dunque per un capriccio, o un proposito balzano, Sandokan provoca la morte di decine di suoi uomini. Poi si incaponisce di rapirla, e anche in questo caso trascina i tigrotti allo sbaraglio inutilmente trattenuto dal fido Yanez, il saggio portoghese che gli fa da braccio destro, che cerca di farlo ragionare, che lo toglie dai guai in cui incautamente l'esaltato "fratellino" si va a cacciare come uno sconsiderato. Tornato a Mompracem con Marianna, si vede attaccato da Lord Guillonk e perde l'isola costretto alla fuga con pochi superstiti. Insomma, l'eroe ha decisamente perso la testa. Da questo punto di vista, il Corsaro Nero è un personaggio deci8samente più maturo. Dopo mille avventure e disavventure, Sandokan riesce comunque a sfuggire allo zio della ragazza, a cui la mostra da nave a nave dicendo: "Guarda mia moglie!" prima che la fuga gli riesca. Sugli ultimi due vascelli rimastigli, dei cento che aveva, il principe fa vela verso il Borneo. Il seguito, nella prossima, tonitruante puntata.

lunedì 7 settembre 2015

LA REGOLA DELL'ENDECASILLABO

La metrica italiana è un argomento di un fascino superlativo, su cui mi piacerebbe dilungarmi – cosa che non farò, a meno che non richiesto a gran voce da una sollevazione popolare. Tra le nozioni basilari c’è il fatto che il  nostro verso è caratterizzato dal numero delle sillabe e dal ritmo. L’unità metrica è la sillaba. Il ritmo è dato dalla posizione degli accenti. La scuola poetica siciliana fu la prima ad applicare il principio del conto sillabico, sull’esempio provenzale. 

Mi fermo qui, e passo a divertirvi (e divertirmi) con un quiz. Che cosa significa “endecasillabo”? Potrei chiedere anche che cosa vuol dire quinario, senario, settenario, ottonario, novenario o decasillabo (citando i nomi dei principali versi italiani), ma prendo a esempio l’endecasillabo perché è il verso della Divina Commedia e tutti sanno citarne almeno uno, il primo: “Nel mezzo del cammin di nostra vita”.

Chiedetelo in giro e quasi tutti vi diranno (ammesso che si cimentino nella risposta) che l’endecasillabo è un verso composto da undici sillabe. In effetti, “Nel mezzo del cammin di nostra vita” conta undici sillabe (contatele pure). Però, la risposta è sbagliata. Ci sono versi della Divina Commedia che, pur essendo perfettamente endecasillabi, contano dieci sillabe. Altri, ne contando dodici. Ma potrebbero esserci endecasillabi di tredici, quattordici e perfino quindici sillabe. Perché? Che cosa significa, dunque, “endacasillabo”?

Ecco, la regola è questa: si dice endecasillabo un verso che ha l’ultimo accento (il più importante nel ritmo di in un verso) sulla decima sillaba. Fate la prova con “Nel mezzo del cammin di nostra vita” e vedrete che l’ultimo accento cade sulla prima sillaba della parola “vita”, che è la decima. Segue la sillaba “ta”, che è l’undicesima. Dunque, poiché la maggioranza delle parole italiane hanno l’accento sulla penultima sillaba (la parola “accènto” ne è appunto un esempio),  e si chiamano piane (o parossitone), la maggioranza dei verso endecasillabi è appunto di undici sillabe. Sfogliate a caso i versi della Divina Commedia e vedrete che le ultime parole finiscono appunto con un accento sulla penultima sillaba (nella prima terzina, è il caso di “oscùra” e di “smarrìta”). 

Cico nella statuetta della serie "Fumetti in 3D"
La regola vale anche per gli altri versi: un ottonario è un verso con l’ultimo accento sulla settima sillaba; un novenario ha l’ultimo accento sull’ottava sillaba, e via dicendo. Quando Cico (il buffo messicano amico di Zagor) canta “Ascoltate brava gente / il lamento del serpente” (la sua più nota composizione, messagli in bocca da Guido Nolitta sullo Zagor n°44), usa il metro tipico della filastrocca, l’ottonario,  e tutti i quattordici versi della sua canzone contano otto sillabe, avendo l’ultimo accento sulla settima, la penultima.

Ma in italiano ci sono anche parole che hanno l’accento sull’ultima sillaba, come “Gesù”, “così”, “perché”, “papà”, “però”. Queste parole si chiamano tronche, o ossitone. Se un verso della Divina Commedia finisse con una parola tronca, l’ultimo accento sarebbe sulla decima sillaba e non ne seguirebbero altre. Così, il verso sarebbe ugualmente un endecasillabo ma con dieci sillabe. Facciamo un esempio. 

Nel ventesimo canto dell’ Inferno, al verso 74, Dante scrive:
“Ciò che ‘n grembo a Benaco star non può”.
Dieci sillabe, endecasillabo tronco. Lo stesso vale per questo verso 
“Lucifero con Giuda, ci sposò” (Inferno, canto XXI, verso 143).
Contate, e vedrete che sono dieci sillabe, pur trattandosi di un endecasillabo. 
Infatti, ha l’ultimo accento sulla decima, ed è questo che conta.

Giuseppe Parini
La nostra lingua consente però anche parole con l’accento sulla terzultima sillaba. E’ appunto il caso della parola “sìllaba”. Potremmo aggiungerci  àttimi, péntole, còccole, àspidi, mètrica, bàratro, sìngolo, sèdano, fràgole, eccetera eccetera. Queste parole si dicono sdrùcciole, o proparossitone. Se un endecasillabo finisce con una parola si questo tipo, l’accento finale va sulla decima sillaba come a solito, ma subito dopo ce ne sono altre due: l’endecasillano avrà allora dodici sillabe.
“Seguendo il cielo sempre fu duràbile” (Paradiso, XXVI, verso 129).
Contate pure e vedrete da soli. L’accento resta in decima sede in ogni caso.
Cambiando poeta e tipo di verso, possiamo vedere come la regola si applica anche al settenario.
“Perché turbarmi l’ànima?”, scrive il Parini ne La vita rustica.
E’ un perfetto settenario ma con otto sillabe, ultimo accento in sesta sede.

Per amor di completezza, bisogna dire che l’italiano ha anche parole bisdrucciole, cioè con accento sulla quartultima sillaba: edìficano, dìtemelo, prèndimelo, andiàmocene, telèfonami, gòditelo. Se in qualche verso endecasillabo la parola finale fosse di questo tipo , avremmo un endecasillabo di tredici sillabe, come in questo esempio: “se morirò un dì pugnando, vendicami”.  La pianto qui e vi risparmio ulteriori lezioni sul ritmo giambico, trocaico o dattilico, così come sulla dialefe e la sinalefe o sulle forme delle strofe. Fino alla prossima volta in cui mi verrà voglia di farlo, ovviamente.

giovedì 3 settembre 2015

FAI BEI SOGNI





FAI BEI SOGNI
di Massimo Gramellini
Longanesi
2012,  200 pagine
euro 14.90 

Difficile parlar male di un libro in grado di vendere più di un milione di copie in Italia. Eppure, io che sono di bocca buona, ho faticato ad arrivare in fondo. Mai titolo fu più azzeccato: "Fai bei sogni". Difatti, dopo due righe: zzzz. Come sempre mi succede in questi casi, di fronte a tanta disparità di giudizio fra il mio parere e quello del testo del genere umano, mi convinco di essere io quello che non ci arriva, per cui faccio pubblica ammenda e confesso i miei limiti. Tuttavia, ormai che mi sono sbilanciato, fatemi provare a raffazzonare qualche motivazione a supporto della mia perplessità. Tanto per cominciare, bisognerebbe mettersi d'accordo su che cos'è "Fai bei sogni". E' un romanzo o è una autobiografia? Wikipedia dice che è un romanzo autobiografico e mette d'accordo tutti, però non è esattamente così. Un romanzo prevede una trama e dei dialoghi fra i personaggi, l'autobiografia dei riferimenti precisi a fatti, date, luoghi, persone. "Fai bei sogni" non soddisfa nessuno dei due requisiti. E' vago e generico come autobiografia, e non articolato e ritmato come romanzo. Ci si dilunga sulla noiosissima infanzia del protagonista (lo stesso Gramellini) e poi voli pindarici sulla parte più interessante, quella della sua carriera giornalistica o dei suoi amori. Addirittura, si sposa e non ce lo dice. Divorzia, e lo veniamo a sapere en passant. Però, di quando andava alle elementari sappiamo tutto. Il motivo è che l'argomento non è la vita di Massimo Gramellini, ma il resoconto, messo giù così come viene, alla bell'e meglio, del suo irrisolto problema della morte della mamma, avvenuta quando lui aveva nove anni. Per carità, la cosa è drammatica e siamo tutti partecipi. Però, sinceramente, qualche lutto abbiamo dovuto elaborarlo tutti e non l'abbiamo fatta tanto lunga. Lo si fa in privato, di solito, e ognuno cerca di farsene una ragione senza tormentare gli altri. Non vorrei sembrare cinico (non lo sono), ma il motivo per cui esiste la letteratura è per sublimare il fatto personale ed elevarlo a categoria universale. Ecco, per quanto mi riguarda io non sono riuscito a venire coinvolto nel dramma personale di Gramellini, che è rimasto lì e mi ha lasciato non dico indifferente ma peggio, infastidito, per una questione tutto sommato comune tirata per le lunghe fino allo sfinimento, senza neppure qualche altra complicazione interessante a movimentare le vicende narrate. Insomma, a parte il fatto di essere orfano (e me ne dispiace) all'io narrante non sembra essere successo nient'altro di interessante, se non aver dovuto mangiare cibo a lui poco gradito alla mensa scolastica. Il colpo di scena finale mi ha un poco riappacificato con il libro come quando, in un giallo, si resta sorpresi dall'identità dell'assassino: la madre non è morta di cancro, ma si è suicidata gettandosi dalla finestra, convinta di non avere speranze di guarigione. Il dramma, in effetti, diventa più coinvolgente. Ma il libro finisce qui, senza che la brusca sterzata comporti una reazione: sembra quasi che la rivelazione permetta la liberazione da un lutto finalmente elaborato, e francamente non si capisce perché uno debba essere stato trent'anni sconvolto dal sapere la mamma morta di malattia, e debba rappacificarsi con il suo ricordo nello scoprirla suicida. Uno si figura il contrario, piuttosto. Perciò, eccomi qua a dire che, francamente, non ho capito il senso di tutto ciò. Probabilmente, non è il mio genere. Però, quando leggo Isabel Allende anche le mamme che muoiono mi fanno piangere. E qui no. Sarà che c'è una trama.

mercoledì 2 settembre 2015

DIO IN PERSONA




DIO IN PERSONA
di Marc-Antoine Mathieu
Edizioni BD
2011, brossurato
64 pagine, 15 euro

Eccola perfetta dimostrazione di come il fumetto sia un medium maturo in grado di raccontare qualsiasi cosa, con grande efficacia. Questo racconto surreale, grottesco e satirico parla di Dio, dell'Uomo, di metafisica, di patafisica, di società, di affari, di pubblicità, di marketing, di giustizia, di arte, di computer, di psicanalisi, di grandezze e di piccolezze (più di quest'ultime). Dio (o chi per Lui) scende fra gli uomini con l'aspetto di un un uomo dalla lunga barba bianca e subito viene condotto in tribunale (in milioni gli fanno causa per ottenere risarcimenti danni per le sventure da cui sono stati colpiti durante la vita) e il processo diviene un evento mediatico. Non è un libro facile da leggere (ma con un po' di sforzo ci si diverte moltissimo): potrebbe essere oggetto di discussioni infinite su ogni vignetta, magari di tesi di laurea. La battuta più folgorante è all'inizio, quando un burocrate chiede i documenti al barbuto appena sceso dal cielo: "Niente codice fiscale, né tessera sanitaria, né residenza, né domicilio, né altri documenti d'identità... si direbbe che lei non esista".