giovedì 31 dicembre 2015

TUTTE LE PROESIE



TUTTE LE PROESIE
di Federico Maria Sardelli
Mario Cardinali Editore
2014, cartonato
310 pagine, 16 euro

La collana in cui il volume è inserito, denominata "I grandi autore de 'Il Vernacoliere'", identifica subito il Sardelli di cui stiamo parlando: una delle punte di diamante del mensile satirico livornese, il più geniale, probabilmente, fra i tanti talentuosi umoristi della scuderia di Mario Cardinali (storico direttore della rivista). Ci sono però altri due Federico Sardelli: lo scrittore (abbiamo parlato in questo spazio del suo ultimo romanzo "L'affare Vivaldi") e il musicista (è uno dei massimi esperti mondiali di musica barocca e direttore d'orchestra di fama internazionale). La compresenza di queste tre personalità nella stessa persona fa sì che anche il Sardelli umorista, per quanto sboccato al limite del triviale (e spesso oltre il limite) conservi tuttavia l'impronta dell'uomo di cultura. Basta, a dimostrarlo, considerare la veste grafica di questo volumetto: si tratta di un falso tomo de "I meridiani" Mondadori, identico nella grafica se non diversificato dalla scritta "i Paralleli". La foto dell'autore (reale) è essa stessa una perfetta parodia dei ritratti che si vedono sulle copertine mondadoriane. Che cosa sono le "proesie" tutte raccolte ("una più, una meno", recita il sottotitolo) in questa silloge? Non sono versi in prosa, ma versi prosaici. Un esempio la composizione intitolata "Giuochi": "Vai, Omar, / corri: / pesta anche / quella laggiù." Oppure, "Ardimento": Ti / spaccherei/ volentieri quella / faccia di cazzo / se non fosse / che lei è una / montagna di / muscoli e dunque / la esorto ad / accettare i miei / rispetti / più devoti". Ed ecco "Riposa": "Riposa, / sì, / riposa / subito / quello / sciampo, / che / t'hanno visto".
A proposito della divisione in versi, è di fondamentale importanza leggere l'introduzione al volume, "Metodo facile e sicuro per diventare poeti", che oltre a essere esilarante dice anche tanta più verità della maggior parte dei saggi teorici sulla poesia. Eccone un estratto: "Allora, si fa così. Per prima cosa non date retta a chi vi dice che bisogna conoscere i classici. Hanno gli autori classici studiato noi? No, e allora perché dovremmo fargli questa cortesia? E' anche assodato che possedere un discreto o passabile italiano parlato e scritto non serve assolutamente a niente dato che le regole sono andate completamente a farsi friggere e nessuno vi verrà mai a rompere i coglioni sulla metrica, il ritmo, l'eloquenza, l'eleganza, ma anche sul senso di ciò che dite. Scrivete come vi pare ciò che vi pare. Unica accortezza: andate spesso a capo. Ecco il primo strumento del poeta moderno: il Tasto di Invio. Questo semplicissimo accorgimento vi consentirà di spremere poesia da qualsiasi frase, anche dalla più banale e sciatta.
'Dove sei stato? Ti ho cercato tutto il tempo'
diventa magicamente:
'Dove / sei stato? / Ti ho cercato / tutto / il tempo'.
A questo strumento formidabile se ne aggiunge un secondo, altrettanto facile e potente: il rimescolamento delle parole. La stessa frase diventa pertanto:
"Tutto. / Dove? / Ti ho cercato, / il tempo, sei stato.'"
Non tutte le Proesie di Sardelli sono, per quanto burlesche o parodistiche, di senso compiuto. Molte sono degli autentici nonsense in cui a suscitare il divertimento è l'assurdità delle frasi: "Piero Piero / eh, caro Piero / caro Piero / para Piero / para Piero Piero piè". In questo caso ecco giungere in aiuto le puntuali note in calce con cui l'autore spiega: "è chiaro e quasi ovvio il riferimento al Rag. Balatresi Piero, commercialista abusivo che intrattenne col Proeta un fitto carteggio di multe non pagate e scontrini falsi". 
Straordinarie le finte (finte?) poesie in lingue straniere con la traduzione a fianco, come quella indiana "KLha-rogn ko tua-fahn", cioè "Agnelletto vezzosetto". Ci sono poi falsi versi alla Metastasio, così come proesie grafiche ottenute con effetti tipografici futuristi o disegnate in brutta calligrafia. Insomma, Sardelli gioca con tutto ed è un piacere giocare con lui.

lunedì 28 dicembre 2015

LA BRISCOLA IN CINQUE



LA BRISCOLA IN CINQUE
di Marco Malvaldi
Sellerio
2007, brossurato
184 pagine, 12 euro

Difficile giudicare questo romanzo di esordio del pisano Marco Malvaldi, il primo della fortunata serie del BarLume. Difficile perché se uno dovesse basarsi sul successo arriso al libro, e a tutti i successivi dello stesso autore, verrebbe da pensare che si debba trattare di un capolavoro. Vendite stratosferiche. Ma se uno viene dalla lettura di Simenon o, più in piccolo, di Camilleri, resta invece deluso, e deluso parecchio. Tutto dipende, insomma, da quel che ci si aspetta. Come nel caso di Montalbano, c'è un paese in riva al mare dal nome inventato: Vigata nel caso dello scrittore siciliano, Pineta in quello del giallista toscano. I personaggi di Camilleri parlano in dialetto siculo, quelli di Malvaldi in vernacolo toscano (pisano o livornese, difficile dirlo con precisione). Il vantaggio di Malvaldi è che, una volta tanto, a indagare non è un ennesimo poliziotto (o carabiniere che sia). Di ispettori, commissari e marescialli ne abbiamo piene le tasche. No: a Pineta c'è un bar, con un "barrista" (d'obbligo le due erre) chiamato Massimo Viviani, il BarLume appunto, di cui sono ospiti fissi quattro arzilli vecchietti: Ampelio Viviani (nonno di Massimo), Pilade Del Tacca, Aldo Griffa e Gino Rimediotti. Caratteristica di Massimo è quella di non servire da bere o da mangiare al cliente se non ne condivide le scelte. Il caso vuole che in un cassonetto dell'immondizia nei pressi del bar venga ritrovato il cadavere di una ragazza, Alina, incinta di qualche settimana, e che dunque Massimo si trovi invischiato nel caso, prima come testimone del ritrovamento, poi come osservatore dello svolgimento delle indagini, approfittando del fatto che i poliziotti e il medico legale passino a prendere il caffè proprio da lui. Ed è appunto il "barrista" a risolvere il caso. Il divertimento della lettura sta tutto nel teatrino che si crea fra i pensionati, il gestore del pubblico esercizio e il via vai di clienti. I commenti dei vecchietti sono esilaranti, la verve con cui Malvaldi descrive le scene è da brillante autore umoristico, su questo non ci piove. Poi, però, quanto a intreccio giallo o approfondimento psicologico dei personaggi, il romanzo lascia parecchio a desiderare. Sotto l'ombrellone, tuttavia, può andare. Sei e mezzo. Forse sette. 

domenica 27 dicembre 2015

PRIMA PAGARE POI RICORDARE




Filippo Scozzari
PRIMA PAGARE POI RICORDARE
Castelvecchi
Prima edizione 1997
brossurato - 242 pagine - lire 18.000

Il senso del titolo viene spiegato a pagina 128: "Andrea e io facemmo molto cose insieme, a volte duellando. Disegnò una tavola muta del mio Absolut, un foglio con alcune vignette slegate tra di loro, sfidandomi a intervenire con un testo che desse ai suoi disegni un senso compiuto. Fatto. Disegnò uno che esce di corsa da una casa elegante e con l'ombrello levato urla al suo autista 'Gino, al ministero'. Mi sfidò a inventare la risposta di Gino, che gli fornii fulmineo: 'Prima pagare, poi ministero'. Ero certo che in due saremmo arrivati al Nobel molto in fretta. Poi, siccome non mi basta mai, nelle settimane successive gli suggerii una serie infinita di Gini che rispondevano cocciuti: 'Prima pagare, poi...' a qualsiasi richiesta. E lui giù, a disegnare tutto. Divenne un tormentone e subito dopo un nostro refrain, recitato in qualsiasi occasione. 'Ciao Filì. Che fai stasera?'. 'Prima pagare, poi stasera'". L'Andrea a cui si fa riferimento é, naturalmente, Pazienza. Filippo Scozzari rivisita con questo suo libro gli anni tra il 1975 e il 1990, un quindicennio denso di avvenimenti e di personaggi. Provoca e urta i nervi, é un gradasso dedito al turpiloquio e alla bestemmia gratuita, livoroso e vanaglorioso. Però sa scrivere. Eccome. Il vero scrittore è quello che quando cominci a leggerlo ti avvinghia alla pagina e non ti fa scollare gli occhi da lì sopra. Che riesce a descriverti ambienti, personaggi, situazioni e atmosfere trasportandoti dove vuole lui e aprendoti davanti agli occhi uno scenario più ampio ancora di quello descritto alle pure e semplici parole. Ecco, Scozzari sa fare tutto questo con un linguaggio personale, preso in prestito dalla lingua di tutti i giorni ma filtrato in modo intelligente fino a creare una prosa del tutto originale ed efficacissima. In questo modo riusciamo a seguirlo dai suoi inizi (un peregrinare fra le case editrici in cerca di pubblicazioni) fino al suo ingresso nello staff di "Alter Alter", poi in quelli di "Cannibale", "Il Male" e "Frigidaire", di cui fu anche fondatore. Il tutto attraverso una serie di contatti che ci vengono resi attraverso acuti ritratti di persona, da Oreste del Buono a Fulvia Serra, da Massimo Mattioli a Vincenzo Sparagna, da Stefano Tamburini ad Andrea Pazienza. Non solo: riviviamo anche il clima di anni formidabili e terribili, con la contestazione a Bologna, le occupazioni giovanili, l'arrivo della droga. Scozzari non é indulgente né con i suoi ex-compagni invasati dall'ideologia, né con chi si é perso per strada caduto vittima dell'eroina. C'è anche da aggiungere che l'autore non parla mai, o quasi, del fumetto. Sì, ci dice che rubava i pennarelli, che realizzava "figate", che ebbe complimenti per quella storia o come fece a inventare quell'altra. Ma solo perché gli serve per descrivere e descriversi, non accenna minimamente a come ha imparato a disegnare, quali furono i suoi maestri ideali, che cosa gli piaceva leggere, quale era la sua concezione del fumetto, quali sono le sue opere migliori e perché, che cosa voleva dire con quelle. Ma in fondo è giusto così: il libro, in effetti, è un libro perfetto come pochi altri.

sabato 26 dicembre 2015

L'OMBRA DIETRO IL SUDARIO



L'OMBRA DIETRO IL SUDARIO
di Pierre Souvestre e Marcel Allain
Mondadori
1965, brossurato
180 pagine

Fantômas: chi era costui? Lo conosciamo come capostipite degli eroi neri, l'ispiratore di Arsenio Lupin, Diabolik e Kriminal. Ma per capire veramente quanto il suo modello abbia potuto lasciare il segno su tanta letteratura, tanto cinema e tanto fumetto dopo di lui, bisogna leggerne almeno un romanzo. E' quello che ho fatto dopo averlo acquistato su una bancarella, uno dei romanzi di Pierre Souvestre e Marcel Allain. Per la precisione, "L'ombra dietro il sudario", il n° 23 di una collana dedicata dalla Mondadori all'inafferrabile criminale nei primi anni Sessanta. Il volume che vedete nella foto è datato gennaio 1965, ed ha il formato dei vecchi numeri di "Urania" e la stessa grafica interna, con il testo su due colonne (180 pagine, rubriche in appendice comprese). Non avendo mai letto un racconto di Fantômas, diciamo così, "originale", ma soltanto avendone sentito parlare (tanto a lungo da poter anch'io sostenere una conversazione in proposito), sono rimasto piacevolmente sorpreso dal ritmo assolutamente veloce della narrazione e dallo stile intrigante dei due scrittori. La prima cosa da dire è che "L'ombra dietro il sudario", in realtà, non comincia e non finisce, dato che la scena iniziale è la diretta prosecuzione del romanzo precedente, e l'ultimo colpo di scena rimanda a un seguito che ci sarebbe stato nella puntata successiva. Però, la vicenda principale è comunque raccontata per intero, e i principali nodi e misteri sono risolti. L'inizio spiega come sia potuto succedere che un treno, entrato in una galleria, non ne sia uscito, benché non si trovi all'interno del tunnel. Ho capito che è stato proprio da qui che Castelli ha preso spunto per una delle scene che si vedono in una sua celebre storia di Zagor, quella del ritorno di Supermike. Ma, soprattutto, ho capito quanto siano debitori i primi Diabolik e i primi Kriminal alle vicende di Fantômas. Davvero aveva ragione Max Bunker nel dire, in una intervista, che per creare il suo Tuta-di-Scheletro non aveva copiato il Re del Terrore delle sorelle Giussani: gli era bastato leggere un paio dei loro episodi per capire che le due sceneggiatrici si rifacevano a Fantômas e dunque a prendere a sua volta ispirazione dal modello originario (e anzi calcando la mano più delle Giussani sugli aspetti torbidi, violenti, erotici e satirici). Nella storia dell' "Ombra dietro il sudario" Fantômas sembra assente per gran parte della trama, che si snoda come un giallo grandguignolesco d'altri tempi (con ripetute decapitazioni, amanti fedifraghi, scambi di identità, gente che finge di essere chi non è, piani machiavellici tali da farmi capire come anche il mio Mortimer debba qualcosa a Souvestre e Allain), salvo poi ricomparire sul più bello rivelando ai lettori che niente di ciò che avevano visto era come appariva. Il povero Juve, l'ispettore che dà la caccia a Fantômas, arriva sempre in ritardo, come Ginko e come Milton. In più, ci sono un figlio e una figlia del criminale, lei buona (e prigioniera del padre), lui cattivo, e suo complice: un vero feulleiton. Non è grande letteratura, ma che divertimento.

mercoledì 23 dicembre 2015

GIANCARLO BIGAZZI, IL GENIACCIO DELLA CANZONE ITALIANA






GIANCARLO BIGAZZI, 
IL GENIACCIO DELLA CANZONE ITALIANA
di Aldo Nove
Bompiani
brossurato, 2012
220 pagine 

L'introduzione dell'autore comincia così: "E' come aprire l'archivio delle nostre emozioni, gettare lo sguardo sulla sconfinata produzione di Giancarlo Bigazzi, Un archivio da subito entusiasmante. E sconcertante. Chi potrebbe infatti immaginare che 'Rose rosse', portata al successo negli anni Sessanta da un giovanissimo Massimo Ranieri, e 'Self Control' di Raf sono state scritte dalla stessa persona?". Una persona, peraltro, in grado di scrivere colonne sonore cinematografiche (sua è quella di "Mediterraneo", film vincitore di un Oscar) senza conoscere la musica; così come di guidare il talento altrui, sapendolo riconoscere in erba, riuscendo ugualmente ad adeguarsi alla personalità di artisti già notissimi; arrivando a scrivere testi di infinita poesia come darsi alla prosaicità più triviale con la valvola di sfogo degli Squallor. 

Duecento milioni di dischi venduti in tutto il mondo indicano un fenomeno che dovrebbe essere oggetto di studio, e meno male che Aldo Nove (scrittore, poeta e autore teatrale) ci ha pensato pubblicando il suo libro pochi giorni prima della scomparsa di Bigazzi (infatti, è uscito nel gennaio del 2012 e non si accenna alla morte, avvenuta il 19 di quel mese). Come ricorda giustamente l'autore, persino il papa Giovanni Paolo II affacciandosi dalla finestra sopra il colonnato una volta cominciò a intonare "Si può dare di più" e tutta la piazza lo seguì in coro. Fra le tante cose che si potrebbero citare, mi sono segnato questa testimonianza di Aldo Nove che coincide con la mia esperienza: "Una delle canzoni di Bigazzi che più hanno sconvolto chi scrive è 'Ti amo', cantata da Umberto Tozzi nel 1977. Ero bambino e mi trovavo a una festa di paese. Quando dagli altoparlanti iniziò a diffondersi la musica di 'Ti amo' mi accadde una cosa irripetibile: era come se tutto si fermasse di fronte a quelle note e quelle parole. Il mio respiro si legava alla musica in un'unica vibrazione della vita, della mia vita, nella magia di una canzone. Sapevo, in quell'istante, sentivo con certezza che avrebbe superato gli anni e i decenni". 
Raccontare la vita di Bigazzi significa raccontare anche la storia dell'Italia del Dopoguerra e della società del nostro Paese. Molte pagine sono dedicate alla Firenze di allora, dove Giancarlo crebbe, e della Roma di allora, dove Giancarlo studiò, fino all'incontro con Ettore Carrera, nel 1966, che gli aprì le porte della grande famiglia Sugar e la possibilità di lavorare, da funzionario di banca con qual era, nel mondo della musica. Bello anche il racconto della lunga e complicata storia d'amore con la moglie Gianna, complicata com'era complicato lui, Bigazzi, iperattivo e nevrotico al punto da avere crisi notturne ricorrenti in cui non riusciva a smettere di fischiettare una canzone che gli premeva dentro e doveva essere partorita. Tante le foto a corredo del testo, ma la parte più bella è la postfazione dello stesso Giancarlo, probabilmente l'ultima cosa da lui scritta. Finisce così: "Grazie di cuore a tutti voi che mi avete permesso di cavalcare a suon di musica questo mezzo secolo. Mi ritengo un privilegiato. Spero di aver contraccambiato donandovi, con le mie canzoni, qualche momento piacevole da ricordare o, meglio ancora, da fischiettare". 

Su Giancarlo Bigazzi ho scritto anche io un mio breve saggio, "Fammi ascoltare ancora Yesterday" pubblicato qui:




giovedì 17 dicembre 2015

GIL ELVGREN, THE COMPLETE PIN-UPS



GIL ELVGREN, THE COMPLETE PIN-UPS
di Gil Elvgren
a cura di Charles G. Martignette e Louis K. Meisel
Taschen
2008, 270 pagine

E' un volumone (270 pagine formato A4, tutte a colori) che fa la gioia degli occhi e che racchiude oltre quarant'anni di carriera di Gil Elvgren, uno dei massimi illustratori americani del Novecento, specializzato nel raffigurare pin up di fanciulle in fiore. Nato nel 1914 nel Minnesota e scomparso nel 1980, Elvgren ha realizzato, tra le metà degli anni Trenta e quella dei Settanta, qualcosa come cinquecento illustrazioni a colori, che sono finite sotto gli occhi di milioni di persone (alcune sue pubblicità per la Coca Cola e la Coppertone hanno fatto il giro del mondo e sono diventate delle icone). Principalmente,il disegnatore ha lavorato per il settore pubblicitario, per riviste mainstream, per riviste per soli uomini e per l'oggettistica legata alle pin up (calendari, carte la gioco), calibrando dunque il livello erotico delle immagini sulla base della committenza, ma senza mai trascendere. Alcune sue immagini raffigurano nudi integrali femminili ma non turberebbero neppure un seminarista, mentre ritratti di donne perfettamente vestite sono allusivi e maliziosi. In ogni caso, le bellezze mostrate sono ragazze acqua e sapone, quasi sempre gioiose, spesso ingenue o sognatrici, sempre empaticamente desiderabili, rassicuranti e leggere, e corrispondenti perciò a un immaginario maschile che cerca in una donna la rassicurazione, la serenità, il divertimento, la seduzione lontana dagli eccessi morbosi e dall'aggressività. Nessuna delle fanciulle si atteggia mai a mangiatrice di uomini. Più che tigri, le ragazze di Elvgren sono gattine. Eppure, non manca loro il sex appeal, né la carica sessuale. Il volume della Taschen, corredato da un lungo e interessante saggio critico (in inglese), mostra anche alcune delle foto delle modelle che posavano per l'artista.

mercoledì 16 dicembre 2015

LA STANZA DEL VESCOVO



LA STANZA DEL VESCOVO
di Piero Chiara
Arnoldo Mondadori Editore

Collana Oscar 
Scrittori del Novecento 
Introduzione di Giancarlo Vigorelli    

2000, 
brossurato

176 pagine  
lire 12.000

La chiave di lettura di questo straordinario romanzo ambientato sul lago Maggiore nell’immediato secondo Dopoguerra, o se si vuole, la metafora che meglio o di più ne riassume il senso, è custodita all’interno della misteriosa cassa conservata da Temistocle Orimbelli nella “stanza del vescovo”, là dove, nella villa della moglie, venivano alloggiati gli ospiti. 
Nel capitolo XVI, scrive Piero Chiara, volgendo a conclusione il suo racconto dopo il suicidio del protagonista: “Il baule venne aperto. Sotto una divisa da capitano c’era una spada d’ordinanza, un pugnale, una machine-pistole tedesca, una rivoltella calibro 9 e un fucile Winchester, avvolti in pezzi di tela. Più sotto, pacchi di lettere di donne legati con lo spago e distinti ognuno con un nome. Ne lessi alcuni: Fanny, Lina, Bruna, Luciana, Marisa. In un angolo del baule, dentro una cappelliera di cuoio, c’era un cappello duro di marca inglese che sul marocchino interno portava stampate in oro le iniziali T.M.O. Fra le altre cianfrusaglie, come ferri di cavallo, talleri di Maria Teresa, pipe e oggettini in avorio, c’era una bussola tascabile, un reggipetto nero, due o tre paia di mutandine femminili, calze lunghe di seta e giarrettiere di velluto d’ogni colore. ‘Ricordi di guerra’, disse il Procuratore della Repubblica. In una specie di grossa tasca, dissimulata nel rivestimento interno del coperchio, vennero rinvenuti dei biglietti di banca a corso legale per il valore di circa un milione di lire. Era tutto quanto l’Orimbelli possedesse in proprio”. 
 



Un baule del genere, probabilmente, è quanto rimarrà di ciascuno di noi dopo la morte, e aprendolo, chi resterà, giudicherà che cosa possedessimo di proprio, che cosa di noi rimarrà a chi resta, il senso intero della nostra vita. Il baule dell’Orimbelli conteneva solo il necessario perché di lui si potesse fare solo del sarcasmo. “Ricordi di guerra”, mutandine e giarrettiere, giacché il protagonista del racconto, costretto a partire soldato, come ufficiale, per evitare uno scandalo, non aveva neppure combattuto ma si era limitato a sedurre con i suoi modi da raffinato marpione una donna dopo l’altra o, più verosimilmente, una donna contemporaneamente a un’altra. Del resto, in vita sua, non aveva fatto nient’altro che vivere alle spalle degli altri, laureandosi solo grazie alle bustarelle elargite da suo padre ai professori, e vivendo fra gli agi garantiti dalla villa della moglie, ma non avendo remore a tessere ogni genere di tresca a danno di chiunque, anche degli amici, senza scrupolo alcuno, ma senza neppure il coraggio di mostrarsi apertamente cinico e disincantato, ma anzi, sempre accampando scuse, inventando bugie, tessendo intrighi. L’ultimo, il più grave, l’omicidio della moglie, organizzato per ottenerne l’eredità e sposare una donna più giovane, e messo in atto sfruttando l’inconsapevole complicità dell’anonimo io narrante, anche lui raggirato in maniera subdola dai modi sfuggenti e insinuanti dell’Orimbelli, e inizialmente incapace di distinguere il vero e il falso, e anzi, portato a sottovalutare la sottile perfidia di un ometto in grado di presentarsi come simpaticamente inoffensivo. 



Piero Chiara è abilissimo nel tratteggiare l’Orimbelli e i suoi modi suadenti e piccolo borghesi, portando lentamente alla scoperta della sua vera e squallida natura, fino all’apertura del baule, e al lascito di una vile eredità di cimeli femminili, armi mai usate, pochi soldi di certo non guadagnati. Il tutto, sullo scenario del lago Maggiore, dipinto in maniera straordinariamente efficace.



martedì 15 dicembre 2015

LA SCATOLA A FORMA DI CUORE



LA SCATOLA A FORMA DI CUORE
di Joe Hill
Sperling & Kupfer
2007, brossurato
367 pagine, 18 euro

Parlando de "La scatola a forma di cuore", gioverà ripetere prima di tutto (è inevitabile, anche se un po' dispiace) che Joe Hill è il fglio di Stephen King, dato che il romanzo sembra appunto un'opera minore di suo padre. Potrebbe essere paragonato a "L'occhio del male", scritto da King con lo pseudonimo di Richard Bachman, in cui uno zingaro maledice un grassone condannandolo a diventare ogni giorno più magro, inesorabilmente. Nel romanzo di Joe Hill la maledizione è quella di un ipnotista, rabdomante e sensitivo, Craddock, che comincia a perseguitare, sottoforma di fantasma, una rockstar in disarmo, Judas Coyne, apparentemente per punirlo di aver portato al suicidio una sua ex-fidanzata Ann, di cui l'uomo, in vita, era il patrigno. Lo spettro si rivela mortalmente pericoloso, perché riesce a instillare in chi lo ascolta (in sogno o in visione) propositi omicidi e suicidi. Per fortuna, Coyne è protetto dai suoi cani, che hanno il dono di percepire la presenza soprannaturale del fantasma e tenerla a distanza. Judas, insieme con la nuova compagna Mary Beth, comincia una lotta contro il tempo per arrivare là dove tutto è iniziato, la casa di Ann e di Craddock, prima che lo spettro li faccia uccidere entrambi a vicenda. E al momento giusto si scopre che le cose non stanno esattamente come sembrano, e Coyne non ha le responsabilità che si è convinto di avere. Ora, se non si sapesse che Hill è figlio di tanto padre, il romanzo potrebbe essere apprezzato di più. Sapendolo, scattano i confronti. Ma che glielo ha fatto fare, al piccolo Joe, di scrivere libri horror? Non sarebbe stato meglio per lui dedicarsi alla letteratura rosa? In ogni caso, il romanzo è consigliabile a tutti i kinghiani. E ai non, ovviamente.

lunedì 14 dicembre 2015

IL RITORNO DI SCHELETRINO



IL RITORNO DI SCHELETRINO 
di Alfredo Castelli, Mario Gomboli e Carlo Peroni
Edizioni Diabolik Club
2010 

Auspicavo il secondo volume delle avventure di Scheletrino, dopo aver letto il primo, pubblicato nel 1994 da Giancarlo Malagutti, che aveva raccolto tutte le storie del parodico criminale (forse dovrei scrivere "kriminale" con la kappa) scritte e disegnate da Alfredo Castelli tutto da solo (one man show), in una antologia che si fregiava di una copertina di Giorgio Cavazzano in cui comparivano, oltre a Scheletrino (evocato in realtà soltanto da un'ombra) anche Martin Mystère e Java. 

La prima serie di Scheletrino, quella appunto castelliana, va dal 1965 al 1967 (39 storie in tutto), apparse in appendice a Diabolik: si dice che le sorelle Giussani pubblicassero volentieri le tavole del giovanissimo Alfredo perché, essendo Scheletrino appunto raffigurato come uno scheletro, ritenevano che prendesse in giro principalmente il personaggio maggior concorrente del Re del Terrore, ovvero Kriminal. In realtà, Scheletrino prendeva in giro in generale tutti i "neri" italiani, i fumetti con la "K" (ma anche quelli con la X, la Y e J). Ma più in generale era un fumetto demenziale sulla falsariga di quelli che apparivano su Mad, e in linea con i primi fumetti satirici a sfondo sociale e anche politico, pur senza la pretesa di denunciare alcunché. Se inizialmente Scheletrino era un soltanto un ladro sfortunato,a cui vanno tutte male mentre a Diabolik vanno tutte bene, un po' alla Cattivik (che comunque è successivo), successivamente diventa un vero e proprio meta-fumetto, uno di quelli cioè in cui il protagonista sa di essere un eroe di carta e interagisce persino con i redattori della propria Casa editrice (uno dei suoi scopi è prendere il posto di Diabolik nel palinsesto della testata). 

Ma, a un certo punto, Castelli smette di realizzare le avventure del suo testa-di-scheletro, distratto da tante altre cose che aveva cominciato a fare. Così le Giussani chiesero a Mario Gomboli, amico di Alfredo e collaboratore della loro Casa editrice, di portare avanti lui la serie, visto che i lettori chiedevano il ritorno del personaggio. Gomboli accettò a patto che a disegnare le nuove avventure fosse un professionista, che fu facilmente individuato in Carlo Peroni, alias Perogatt. Un maestro del fumetto umoristico, con cui Castelli avrebbe realizzato la serie "La vacchia casa oscura" (che speriamo sia presto ristampata a sua volta). Così, Scheletrino rinasce nel luglio 1970 con disegni effettivamente più curati dello standard precedente. 

Le prime due storie del nuovo corso, in realtà, portano ancora la firma del BVZA. Poi, Gomboli e Perogatt imperversano da soli per altri tredici episodi, fino al luglio 1971. Poi anche Gomboli getta la spugna, non si sa bene per quale motivo (nella prefazione, lo stesso Gomboli non è molto chiaro: dice che Castelli "manifestò insofferenza" ma, nello stesso tempo, si dimostrò "disponibile" a lasciarlo proseguire, ma lui non volle). A corredo del volume, in appendice, un saggio di Roberto Altariva esamina criticamente tutta la vicenda editoriale di Scheletrino e fornisce alcune dritte su come interpretare passaggi e battute che forse venivano capite all'epoca ma che risultano criptiche oggi. 

Un solo appunto, al proposito: nella prima storia, si vedono varie proteste in tutto il mondo per ottenere il ritorno di Scheletrino e, per esempio, i manifestanti di destra agitano cartelli con su scritto "Scheletrino o morte!", i pacifisti gridano lo slogan "Fate Scheletrino e non la guerra", i figli dei fiori innalzano striscioni psichedelici, gli impiegati pubblici per protesta cominciano a lavorare (se scioperassero in favore di Scheletrino, sarebbe stata la norma), eccetera. Ma si nota anche Mao Tze Tung che, invece di fare il bagno nel fiume, rimane sdegnoso sulla riva e sembra non volere più nuotare finché Scheletrino non ricomparirà sulle pagine di Diabolik. Le note dicono che "il rifiuto del presidente Mao a esibirsi nella gara di nuoto, con tutta probabilità riecheggia il ventilato boicottaggio delle olimpiadi messicane del 1968 da parte degli atleti di colore degli Stati Uniti". Secondo me, il collegamento più immediato è invece proprio con Mao che per tradizione e in chiave propagandistica si faceva fotografare ogni anno a guazzo nel fiume Yangtze in ricordo di quando, il 16 luglio 1966, aveva attraversato a nuoto il Fiume Giallo all'altezza di Wuhan, per tornare a Pechino a guidare la rivoluzione. Qualche anno dopo, esaminando l'ultima foto che raffigurava la tradizionale nuotata, in Occidente si scoprì che si trattava di un fotomontaggio: il vecchio leader non gliela faceva più, ma la propaganda esigeva che si dimostrasse al mondo come il Libretto Rosso mantenesse giovani e vispi. Anche Magnue & Bunker, in un loro Alan Ford, mostrano Mao nuotare in un fiume e affogare.

mercoledì 9 dicembre 2015

LA ZATTERA DI GHIACCIO



LA ZATTERA DI GHIACCIO
di Rudolf Blaumanis
Sellerio
1995, brossurato,
64 pagine, 6.20 euro

"La zattera di ghiaccio" è un romanzo breve inserito nella collana "Il mare" diretta da Salvatore Mazzarella che scrive l'introduzione, mentre c'è una postfazione di Renzo Oliva che inquadra bene l'autore nel suo tempo e nella sua collocazione culturale e geografica. Rudolfs Blaumanis nacque infatti in Livonia (una regione della Lettonia) nel 1863 e morì in Finlandia nel 1908, dunque piuttosto giovane. Scrittore realistico con grande senso del dramma (tant'è vero che fu anche drammaturgo) si rivela in grado di raccontare in modo efficace storie della sua gente e delle sue terre. "La zattera di ghiaccio" ne è un esempio fulminante, fin dall'incipit: "Ancora soffiava il vento da sud-ovest, e ancor di più l'enorme lastra di ghiaccio, galleggiando, si spingeva in alto mare. Sul lastrone si trovavano quattordici pescatori e due cavalli". Dopo poche righe così, chi riuscirebbe a non proseguire, per capire che cosa è accaduto e che casa accadrà? I pescatori avevano fatto fori nel ghiaccio del Mar Baltico per calare in acqua le reti, e tirarle su con i cavalli, ma si erano accorti troppo tardi che la lastra su cui si trovavano si era staccata dalla costa e aveva cominciato ad andare alla deriva. Uno di loro si era gettato in acqua per cercare di raggiungere la riva a nuoto, ma era annegato dopo poche bracciate, vinto dal freddo, sotto gli occhi dei compagni. Il dramma comincia così. Niente per difendersi del gelo della notte, niente acqua da bere (il ghiaccio non disseta, come sanno bene gli esploratori artici e gli alpinisti), il pesce solo crudo da mangiare e dei cavalli da macellare, senza sapere bene come. Nessuna speranza di salvezza se non quella dell'arrivo di una nave in tempi rapidi, molto rapidi, visto che la zattera di ghiaccio comincia a frantumarsi. Una prima divisione separa il gruppo, e per i pochi rimasti dalla parte sbagliata, senza cibo, è la fine. I sopravvissuti cominciano a litigare, qualcuno nasconde agli altri la fiaschetta del liquore o vuole vendere il pesce che considera suo e non dividerlo. Si tira a sorte chi debba togliersi la camicia per issarla come una bandiera. Un padre incoraggia il figlio, in molti subentra il fatalismo. Finché arriva una piccola barca in soccorso: ma non c'è posto per tutti! Solo sette potranno essere salvati, e i naufraghi sono dieci. Come scegliere chi vivrà, e chi sarà condannato a morire? Il tutto raccontato con la prosa asciutta del narratore abituato a non sprecare parole inutili, com'è tipico della gente del nord.

martedì 8 dicembre 2015

LA VITA DI GESU'



LA VITA DI GESU'
di Autore Anonimo
Unione Giovanile Cattolica
anni Venti
ristampa anastatica RBA
2012

Si tratta di un volume cartonato in formato orizzontale, riprodotto fedelmente in tutte le sue novanta pagine, più copertina, dalla RBA, nell'ambito della benemerita raccolta "La Biblioteca dei Ricordo" (distribuita in edicola ma, purtroppo, di breve durata). L'aspetto del libro è dunque esattamente quello in cui venne distribuito all'inizio del Novecento, in ambito parrocchiale, nelle Scuole e in famiglia: non contiene i quattro Vangeli, ma una sorta di loro "novelization" realizzata da uno scrittore non particolarmente talentuoso, incline anzi a dar prova di umorismo involontario e a infarcire la sua prosa di sgradevolezze lessicali, ripetizioni e dialettalismi. Lo scopo della pubblicazione è chiaramente quello catechistico e di proselitismo confessionale, e il target è quello dei ragazzi delle scuole elementari, tant'è vero che la collana di cui faceva parte si chiamava "Per la cultura religiosa dei bambini". Ogni due pagine ci sono bellissime illustrazioni in bianco e nero, ispirate a famose opere d'arte. La lettura riesce a dare il senso di un'epoca, vicina e lontana al tempo stesso, a calare in una diversa realtà sociale e culturale. 

Il narratore, che preferisce restare anonimo e si definisce soltanto "un amico" dei suoi giovanissimi lettori, si attiene al "grado zero" dell'affabulazione e quando deve trarre la morale da ciò che racconta punta all'indottrinamento spicciolo della predicazione di un tempo, basato sui sensi di colpa, la paura dell'inferno, l'obbedienza al clero. 

Il racconto comincia con la spiegazione del Peccato Originale, in ragione del quale si sarebbe resa necessaria la Redenzione (con l'Incarnazione del Figlio di Dio). "Iddio è onnipotente e può fare quello che vuole", è la premessa. Vuole pertanto creare il mondo, che prima non esisteva, ma Adamo ed Eva gli disubbidirono e commisero "un grande peccato" (quale, non è dato sapere) "e poi quasi tutte le altre persone che vennero al mondo disubbidivano al Signore e commettevano tanti peccati, sicché quasi tutte, quando morivano, andavano all'Inferno. Il Paradiso era chiuso e non ci poteva entrare più nessuno". A me, come bambino, sarebbe venuto da chiedermi dove andavano quei pochi che non commettevano peccati, dato che "quasi tutti" andavano all'Inferno, ma qualcuno no, però il Paradiso era "chiuso". Un altro dubbio che sicuramente mi sarebbe venuto è questo: se Iddio "può fare quello che vuole", evidentemente è stato lui a chiudere il Paradiso (non si certo chiuso da sé o contro la sua volontà), dunque gli sarebbe bastato un cenno del capo per riaprirlo, dimenticando il passato e facendo un po' meno l'offeso, per risolvere la faccenda senza tante complicazioni. Ma nel testo non c'è nessun accenno di soluzione per questi dubbi (ed è probabile che i dubbi stessi siano, anzi, parte del "grande peccato"). 

Altre domande uno se le potrebbe porre ascoltando il racconto dell'Annunciazione: "Dove si poteva trovare, sulla terra, una donna tanto pura e tanto santa, che potesse diventare la madre di Dio? Sembrava che non si potesse trovare. Ma il Signore, dal Paradiso, guardò tutti i paesi del mondo e vide che in un paese, che si chiamava Nazaret, c'era una giovinetta più buona e più santa di tutte le altre giovinette del mondo. Essa si chiana Maria, e S.Giuseppe era il suo sposo". Al che, Dio manda l'Arcangelo Gabriele. Ma se S.Giuseppe era il suo sposo, allora Maria era già sposata, quando arriva l'angelo. E dunque, non era vergine? Inoltre non sfugga il fatto che non si accenna al popolo ebraico come quello eletto, quello destinato fin dai tempi di Abramo a dare al mondo il Messia: i Vangeli, eppure, ne parlano. Fedele all'antisemitismo tipico della sua epoca (e di quelle precedenti), l'autore fa credere ai lettori che Nazaret fosse un paese come un altro, e che Maria era nata lì per caso, avrebbe potuto essere nata anche a Pizzighettone, e allora invece che di Gesù di Nazaret parleremmo di Gesù di Pizzighettone. 

L'umorismo involontario si scatena la prima volta quando il narratore racconta la nascita di Gesù, che come sappiamo fu deposto in una mangiatoia. "Gesù soffriva molto, perché aveva freddo e perché la paglia lo pungeva, ma soffriva volentieri perché voleva salvare tutti gli uomini con le sue sofferenze". Ecco, passi per il freddo, ma che tra le sofferenze di Gesù ci fosse anche il contatto con la paglia pungente, a me fa sorridere. Del resto, il martirio continua poco dopo: "Nel paese dove nacque Gesù c'era un costume (perché così aveva comandato il Signore) che ad ogni bambino, otto giorni dopo che era nato, si doveva fare una piccola ferita rotonda nella carne e il bambino versava un po' di sangue. Questa cerimonia si chiamava 'circoncisione'. Anche al Bambino Gesù dunque, otto giorni dopo che era nato, si fece la circoncisione ed egli soffriva, perché la carne era ferita e versava sangue; ma soffriva volentieri per amor nostro". Ecco, al di là della buffa descrizione della cerimonia, che non dice dove si eseguiva il taglietto e perché, se io fossi stato un bambino dell'epoca mi sarei chiesto perché mai il Signore avesse "comandato" (di sua iniziativa, a quanto pare) che si facesse così, e che dunque tutti i poveri bambini dovessero soffrire. Il fatto che soffrisse anche Gesù, in questo caso, mi sarebbe sembrata un po' colpa del Padreterno, più che nostra. E insomma, anche in questo caso, sai che sofferenza: capisco la croce, ma dato che il mondo è pieno di circoncisi ancora oggi, forse il patimento è sopportabile. 

Sorvoliamo sulla strage degli innocenti che forse si sarebbe potuta evitare senza la stella cometa (che fu, bisogna dirlo, un'imprudenza), e arriviamo alla parabola del ricco Epulone. Ci viene spiegato che costui va all'Inferno perché "aveva goduto tanto quando stava al mondo: aveva mangiato, bevuto e ballato e fatto tanti peccati", mentre il povero Lazzaro, che mendicava davanti alla sua porta, va in Paradiso perché, dopo aver tanto sofferto, adesso poteva godersi la gioia eterna. Colpisce la disparità tra il delitto e la pena, così come fra il danno e la ricompensa: per alcuni anni di gozzoviglie (certo imperdonabili), Epulone viene condannato a bruciare nel fuoco per l'eternità! Cioè, non per mille anni, ma per sempre. E Lazzaro, per aver patito qualche decennio, eccolo godere per tutti i secoli dei secoli. Qualunque avvocato potrebbe impugnare la sentenza, se le cose stessero così. E' chiaro che il racconto evangelico allude (spero) a significati più profondi, a cui però la nostra "Vita di Gesù" ci nega l'accesso. Anzi, trae questa morale: "Questa parabola la raccontava Gesù per far comprendere che dopo questa vita c'è veramente il Paradiso per quelli che sono stati buoni, e l'Inferno per quelli che sono stati cattivi. Lo dobbiamo credere perché l'ha detto Gesù e lo dice il Papa, lo dicono i Vescovi e lo dicono i Sacerdoti che sono stati mandati da Dio". Non mi dilungo oltre, il senso è chiaro. Basterà solo citare un passaggio del fervorino finale: "Perché a Gesù, che ti vuole tanto bene, gli fai tanto dispiacere e gli ferisci il cuore con le tue cattiverie?". Ecco, se io fossi un uomo di fede e volessi provare a spiegare il Vangelo, non farei discorsi del genere ma tenderei a spiegare come Gesù possa essere un maestro di vita e, soprattutto, possa riempire il cuore di gioia. Niente sensi di colpa, che così tanto ancora oggi mi affliggono, dai tempi del mio catechismo.

lunedì 7 dicembre 2015

BIGLIETTI, PREGO




BIGLIETTI, PREGO
di David Herbert Lawrence
Edizioni Corriere della Sera
2012, brossurato
100 pagine, 2.80 euro

Più del racconto (che pure è gradevole) è interessante parlare della collana in cui è inserito, quella delle "Twin Stories" che uscivano in allegato con il "Corriere della Sera", al costo di 2,80 euro più il prezzo del quotidiano. "Piccoli capolavori che fanno grande il tuo inglese", dice lo slogan che presenta la collezione di agili libretti (cento pagine in tutto): questo perché a fronte del testo tradotto in italiano c'è quello in lingua originale, corredato da annotazioni linguistiche e stilistiche. Della collana fanno parte racconti dei più grandi scrittori inglesi e americano, da Scott Fitzgerald a Jack London. Nel caso di Lawrence, i racconti sono due: "Tickets, please" e il brevissimo "Sorriso", scritti poco prima degli anni Venti. Lawrence è l'autore del celebre romanzo "L'amante di Lady Chatterley": uno scrittore inquieto, che soffriva l'ansia dei suoi tempi in cui l'industrializzazione, la modernizzazione, la ricerca del profitto, il ritmo frenetico della vita sociale, la civilizzazione stessa gli sembravano opprimere la naturale vita emotiva, interiore, dell'uomo, e interrompere il flusso vitale fra la sua anima e quella del cosmo. Di umili origini (suo padre era minatore), morì giovane, a 45 anni, nel 1930, e la sua breve vita fu segnata dalla tragedia della Prima Guerra Mondiale, a cui non partecipò per le sue condizioni di salute (era tubercolotico) ma che influì sulla sua percezione della società come qualcosa di più ammalata di lui.

La guerra ha qualcosa a che vedere anche con "Biglietti, prego": la storia si svolge tra i dipendenti delle ferrovie britanniche, dove lavorano anche molte donne, con l'incarico di bigliettaie, dato che molti uomini sono al fronte. Per Lawrence, ciò rappresenta un abbrutimento, anziché una conquista: lo si capisce anche dall'insistenza con cui descrive la bruttezza dei paesaggi industriali delle Midlands inglesi in cui il treno compie il suo tragitto. Un conducente del convoglio, John Thomas Raynor, forte di essere uno dei pochi maschi disponibili, seduce una per una tutte le colleghe, finché una di esse, abbandonata dopo essersi innamorata, convince le altre vittime a organizzare una vendetta collettiva, un po' come fanno "Le ragazze di San Frediano" nel romanzo di Pratolini (che è del 1949) nei confronti di Bob. La trama è semplicissima, la narrazione essenziale, la lettura in inglese è molto gradevole. 

In aggiunta al primo racconto ce n'è un secondo. "Smile", "Sorriso": un testo che avrebbe fatto la gioia di Freud, e che, appunto per questo, a me ha ricordato i racconti di "Piccola borghesia" di Elio Vittorini, freudiani quant'altri mai. Matthew giunge all'ospedale poco dopo che la moglie Ofelia è morta e, benché ne sia addolorato, viene percorso anche da un senso di liberazione al pensiero della sua nuova vita senza di lei. Perciò, anziché piangere, gli viene da sorridere. Ma subito subentra il senso di colpa e si deve sforzare per assumere l'atteggiamento più consono alle circostanze, quello che tutti si aspettano da lui. "Never was a man more utterly smiless", conclude Lawrence: mai vi fu un uomo più totalmente privo di sorriso.

giovedì 3 dicembre 2015

LA RAGAZZA DEL TRENO




LA RAGAZZA DEL TRENO
di Paula Hawkins
Piemme
2015, cartonato
310 pagine, 19.50 euro

Ogni estate c'è un romanzo che finisce in testa alle classifiche di vendita e viene letto sotto tutti gli ombrelloni. Sono da sempre fra quelli che ritengono i bestsellers degni di ammirazione indipendentemente dal contenuto, nel senso che se degli autori sono stati così bravi da intercettare il favore del pubblico, le loro opere vanno prese in considerazione e ci si deve interrogare sul perché del loro successo. Non capisco, anzi, lo snobbismo radical chic e e la puzza sotto il naso di quelli che se non si tratta di scrittori etichettati come intellettuali di moda nei salotti buoni, del giro impegnato e in odor di Nobel, allora ci si vergogna persino a nominarli. Tuttavia, talvolta quel che vende di più piace a volte anche a me, altre volte no. Com'è inevitabile. "La verità sul caso Harry Quebert" per esempio mi ha deluso, mentre la trilogia di "Millennium" la considero un capolavoro. "La ragazza del treno", che ha spopolato nei mesi estivi del 2015, non è un capolavoro, ma è un gran bel giallo. Di quelli che si leggono in una notte per vedere come vanno a finire. Di quelli da consigliare agli amici certi di far loro un piacere. Non lascerà il segno nella letteratura, ma ne faranno un film di cui si dirà che era meglio il libro. Paula Hawkins, classe 1972, nata nello Zimbabwe da genitori inglesi e poi trasferitasi in Inghilterra, è una esordiente nel campo del thriller, dopo quindici anni di giornalismo: vedremo se sarà altrettanto fortunata con i suoi prossimi romanzi. Le doti ce le ha. Ne "La ragazza del treno" c'è il ricordo di Agatha Christie ("Istantanea di un delitto") e di Hitchcock ("La finestra sul cortile") ma sarebbe sbagliato vederci soltanto la matrice gialla, quella incentrata sulla testimone involontaria di qualcosa che accade in una villetta accanto alla ferrovia, dove il treno dei pendolari si ferma tutti i giorni per un semaforo rosso. In realtà, e non è una sottotrama minore, la protagonista, Rachel, ha un caso ben più grave da risolvere, oltre a quello della scomparsa di Megan, la donna che viveva nella casa da lei involontariamente spiata durante ogni viaggio. Rachel deve vincere la battaglia con l'alcolismo, che non soltanto rende inattendibile la sua testimonianza, ma le minaccia la vita come il più letale degli assassini. Si soffre di più leggendo della sua lotta contro la bottiglia che per la sorte della donna scomparsa, il cui caso è comunque coinvolgente. Infine, è un giallo tutto al femminile nel senso che non soltanto l'autrice è donna, ma scava da donna nelle psicologie dei tre personaggi principali: Rachel, appunto, Megan e Anna, la nuova moglie dell'ex marito della protagonista. Tutte e tre vivono drammi interiori e sono mosse da motivazioni in cui ogni donna si può facilmente riconoscere.