domenica 31 gennaio 2016

GUGLIELMO LETTERI & TEX



GUGLIELMO LETTERI & TEX
Omaggio a un maestro dell’avventura
di Moreno Burattini, Stefano Priarone e Antonio Vianovi
Glamour International Production
1998, brossurato
p.n.i.

Nel 1998 Lucca Comics ospitò una grande mostra, organizzata da Antonio Vianovi, dedicata a Guglielmo Letteri, uno dei principali disegnatori di Tex. A occuparci dei testi di un volume destinato a fungere da catalogo dell’esposizione fummo il sottoscritto e Stefano Priarone.  All’epoca, il disegnatore era ancora vivo (lo sarebbe rimasto fino al 2006) e ebbi modo di incontrarlo, fargli una lunga intervista, conoscerlo bene e ricevere da lui attestati di stima e di simpatia prima, durante e dopo la preparazione del libro. Io mi occupai del saggio critico-biografico, Priarone della disamina di ogni singola storia di Aquila della Notte disegnata dall’artista romano e della cronologia. Vianovi, dal canto suo, curò il ricco apparato iconografico. Il volume è dunque aggiornato fino all’anno in cui uscì, mentre Letteri sarebbe rimasto arrivo per ancora quasi un decennio. Un secondo libro firmato da Burattini e Pariarone ed edito da Allagalla nel 2015 avrebbe fornito un più esaustivo quadro dell’opera dell’autore. Nato a Roma nel 1926 e lì morto nel 2006, Letteri fu il primo disegnatore di Tex a imporre una sua chiara interpretazione del personaggio, ben differente da quella del creatore grafico Aurelio Galleppini, in questo aprendo la strada ad altri suoi colleghi che, seguendo il suo esempio, offrirono le proprie versioni dell’eroe. Nonostante la non aderenza al modello di Galep, Letteri riuscì fin da subito a entrare nel cuore dei lettori grazie alla sua capacità di rendere credibili le storie magiche (soprattutto quelle con protagonista il “brujo” di origine egiziana El Morisco) e di raffigurare intriganti personaggi femminili (come Esmeralda o la Diablera). In gioventù, Guglielmo aveva militato con Carlo Loffredo nel gruppo jazz Crystal Trio e avrebbe potuto intraprendere la professione del musicista se il festino non lo avesse messo in contatto, in Argentina, con Hugo Pratt e gli autori italiani dell’Asso di Picche, che lo convinsero a fare il fumettista. Sono lieto di aver contribuito a promuovere la sua fama e il suo ricordo con il mio lavoro di saggista.


sabato 30 gennaio 2016

IN VIAGGIO CON TEX



IN VIAGGIO CON TEX
di Aurelio Sangiorgio
Edizioni il Minotauro

1998, brossurato, 
146 pagine b/n, 
lire 26.000

Dov’è nato Tex Willer? In un “piccolo ranch circa tre miglia ad est di Rock Spring nel sud del Texas, poco lontano dalle sorgenti del Nueces”, risponde Bonelli senior nella storia “Il passato di Tex”. Incredibile ma vero, c’è stato chi è andato a controllare se il luogo esiste davvero. Si tratta di Aurelio Sangiorgio, autore di un agile e divertente libretto dal titolo “In viaggio con Tex” in cui si scopre che c’è sul serio una cittadina chiamata Rock Springs (una “s” in più non modifica la sostanza) a metà strada tra le sorgenti del Nueces e quelle del West Nueces. Ai lettori vengono quindi fornite tutte le indicazioni utili per raggiungerla. Lo stesso avviene per tutte le altre più importanti località della saga texiana, compresa Taos, dove nacque Kit Carson, e poi Kayenta, la cittadina più vicina al villaggio centrale dei Navajo, dove Tex riceve la posta (l’indirizzo esatto di Aquila della Notte è: Tex Willer, Post Office Kayenta, Arizona). Quindi Flagstaff, Nogales, Tucson, Tombstone, Yuma, El Paso. Ma non c’è solo il West: grazie ad Aurelio Sangiorgio possiamo scoprire con curiosità tutto quello che può servire per visitare lo Yucatan (i luoghi di Yama), l’Alaska, le grandi città (San Francisco, Washington). La prefazione è di Sergio Bonelli. Peccato per la scarsa qualità delle illustrazioni.


venerdì 29 gennaio 2016

IL GIARDINO DEI FINZI-CONTINI



IL GIARDINO DEI FINZI-CONTINI
di Giorgio Bassani
Universale Economica Feltrinelli
2012, brossurato
220 pagine, 9 euro

Ipnotico, affascinante, rilassante e inquietante al tempo stesso: quando un libro riesce ad assorbire totalmente il lettore e farlo entrare nelle proprie pagine è una magia che esorcizza la realtà e dona un rinfrancante senso di benessere. Chiusa l'ultima pagina del libro, mi sono posto la domanda che indubbiamente preme dentro a chiunque lo legga per tutta la durata del romanzo: è esistito davvero, il giardino dei Finzi-Contini? O Bassani si è inventato tutto? Facendo ricerche in rete, si scopre che il dibattito è controverso. Ne parleremo fra un attimo. Prima, due informazioni sullo scrittore e sulla sua opera più nota, resa tale grazie anche al film omonimo diretto da Vittorio De Sica. 

"Da molti anni desideravo scrivere dei Finzi-Contini – di Micòl e di Alberto, del professor Ermanno e della signora Olga – e di quanti altri abitavano o come me frequentavano la casa di corso Ercole I d'Este, a Ferrara, poco prima che scoppiasse l'ultima guerra. Ma l'impulso, la spinta a farlo veramente, li ebbi soltanto un anno fa, una domenica d'aprile del 1957", così comincia il prologo del romanzo, uscito in realtà nel 1962, anno in cui vinse anche il premio Viareggio. 
Giorgio Bassani era nato a Bologna nel 1916, da genitori ebrei, ferraresi. A Ferrara, la città che fa da sfondo (o da protagonista) ai suoi principali racconti, trascorse l'infanzia e la giovinezza. Sfuggito alle persecuzioni fasciste dopo essere entrato in clandestinità, trascorse a Roma il resto della vita come scrittore e uomo pubblico. Proprio dalla sua esperienza degli effetti nefasti delle tragiche leggi razziali nasce "Il giardino dei Finzi-Contini". 
La trama è esile e si può raccontare in poche parole. L'anonimo io narrante, che si può tranquillamente identificare in Bassani stesso pur non essendolo, è un giovane ebreo ferrarese, nato in una famiglia borghese, benestante ma non ricca. L'appartenenza alla comunità israelitica e le comuni frequentazioni scolastiche lo fanno diventare amico di Alberto e Micòl Finzi-Contini, rampolli invece di una famiglia altolocata e dalle grandi risorse economiche, proprietaria di una villa e di un enorme parco. Tutti e tre i giovani sono studenti universitari, e si trovano a passare insieme l'estate del 1938 giocando quasi tutti i giorni a tennis nel campo privato dei Finzi-Contini. Con loro una varia compagnia di coetanei, tra cui spicca il milanese Giampiero Malnate, di idee marxiste. Il gruppo discute di politica, di letteratura, di musica, dei rispettivi studi. Su di loro grava però il giro di vite delle leggi razziali volute da Mussolini e l'incubo del regime hitleriano. L'io narrante si innamora di Micòl e costei sembra in un primo tempo dargli corda o incoraggiarlo, ma poi, al ritorno di una sua lunga assenza (per la laurea, conseguita a Venezia), quando lui si dichiara, la ragazza cambia atteggiamento e, dopo un lungo tergiversare, lo respinge, confessandogli che preferirebbe non vederlo più. Malnate aiuta l'amico respinto a superare la delusione d'amore, standogli vicino per tutta l'estate del 1939. Questi riesce effettivamente a dimenticare Micòl, convincendosi però, alla fine, che lei abbia una relazione segreta proprio con Malnate. 
Il romanzo si conclude con la fine del rapporto del protagonista con la ragazza, ma a questo punto siamo già all'invasione della Polonia da parte di Hitler, che scombina le idee anche dei marxisti che non si sarebbero aspettati un mancato intervento da parte di Stalin. Un epilogo racconta in breve della morte di Alberto per linfogranuloma, della fine di Giampiero Malnate, arruolatosi nel 1941 nel corpo di spedizione italiano inviato in Russia e non tornato mai più, e della deportazione nei campi di sterminio del'intera famiglia Finzi-Contini, catturata nell'autunno del 1943 dai nazifascisti. 
Il fascino del romanzo non sta tanto, dunque, nel succedersi di drammatici avvenimenti (le vicende storiche più tragiche restano alluse) ma nella ricostruzione emotiva di un periodo storico su cui incombeva la catastrofe, visto con gli occhi dei giovani di allora. Bassani riesce a rendere in maniera superlativa gli effetti delle leggi razziali la cui applicazione, inizialmente disattesa, si fa via via sempre più stringente, mentre i ragazzi ebrei ci appaiono per quel che sono, inseriti perfettamente nel tessuto sociale, informati, collegati con il circuito delle idee internazionali, pieni di voglia di vivere, di desideri, di curiosità: le persecuzioni si mostrano perciò insensate, folli, assurde negli effetti prima ancora che nelle premesse. Viene inoltre ricostruita la vita ferrarese dell'epoca, si scopre quanto effervescenti fossero i cinema, i teatri, i ristoranti, persino le case chiuse, un minuto prima che la Guerra spazzasse via tutto. La lingua di Bassani è curata e gradevole, musicale e puntuale al tempo stesso. Perfetta. 
Ma alla fine, quel che lo scrittore racconta è vero oppure no? E' ormai acquisito che tutto nacque dall'esperienza diretta di Giorgio Bassani sulle persecuzioni e sulle deportazioni nei campi di sterminio degli ebrei di Ferrara, ma i personaggi sono di fantasia. O meglio, ognuno di essi fa riferimento a più di una persona realmente esistita. In particolare, però, una figura ben identificabile è Silvio Finzi-Magrini, che sarebbe l' uomo la cui vicenda ha ispirato in Bassani la figura di Ermanno Finzi-Contini, capostipite della casata e padre di Micòl. Chi era allora proprio costei? Prima di morire, la narratrice Roseda Tumiati ricordò: «Riassume un certo numero di donne che Bassani ha amato e frequentato. Noi abbiamo pensato potesse essere mia sorella Caterina, bionda, occhi celesti, dolcissima. Giorgio ne era innamorato. Ne ha amata un' altra: piccola, enigmatica, affascinante. Ce n' era un' altra a Bologna che giocava bene a tennis». Insomma, un gioco di sovrapposizioni in un romanzo che non si può fare a meno di leggere.

domenica 24 gennaio 2016

NON DIRLO


NON DIRLO
di Sandro Veronesi
Bompiani
2015, brossurato,
260 pagine, 13 euro

Nello stesso anno in cui Emmanuel Carrère ha pubblicato "Il Regno" ricostruendo (da laico e da non credente) la vita dell'evangelista Luca e la predicazione di San Paolo, anche Sandro Veronesi si occupa, con questo libro, di San Marco e del suo Vangelo. Veronesi (Firenze, 1959) ha vinto il Premio Strega nel 2006 con "Caos calmo" (opera sicuramente consigliabile). Scrive l'autore nella sua Premessa: "Quanto alle ragioni per cui, pur non conoscendo né il greco né l'aramaico, pur non essendo né un biblista né un teologo, e nemmeno un credente, mi sono sentito spinto a mettere il becco su un testo come il Vangelo, dirò che sono sostanzialmente due. La prima ragione si chiama entusiasmo, dato che per me il Vangelo di Marco è un testo letteralmente entusiasmante: è l'invenzione stessa del Vangelo. La seconda ragione si chiama 'Dei Verbum', cioè il documento più autenticamente rivoluzionario prodotto dal Concilio Vaticano II, se, come l'ho inteso io, esso rappresenta l'apertura della tradizione cristiana a chiunque senta di avere qualcosa da aggiungervi, indipendentemente dai titoli che possiede, dal ruolo che ricopre e addirittura dal fatto che creda o no in Dio. Se l'avessi inteso male porgo le mie scuse, poiché non era mia intenzione trasgredire alcun dogma o mancare di rispetto a nessuno, ma non posso più rimangiarmi nulla di ciò che ho scritto". Come Carrére, Veronesi dimostra di essersi documentato bene, di aver letto un bel po' di quello che c'è da leggere, e di essere decisamente rimasto coinvolto nel suo approfondimento. Il punto di vista dal quale lo scrittore italiano esamina il Vangelo secondo Marco è letterario, in certi punti quasi cinematografico (immagina più volte come Tarantino o Leone avrebbero filmato certe scene) e lo scopo è dimostrare quanto sia efficace l'evangelista nelle sue scelte narrative, a partire dal potente incipit che salta a piè pari l'infanzia di Gesù, consegnandoci un Messia già adulto. Il Vangelo di Marco è il primo che, secondo gli studiosi, è stato scritto: è servito infatti come fonte anche a Matteo e Luca, che vi attingono a piene mani. E' il più breve dei quattro racconti evangelici e quello, soprattutto, in cui predomina l'azione a discapito delle parole. Non c'è la Madonna, non ci sono le Beatiudini né il Discorso della Montagna, non c'è il Padre Nostro. Cristo, più che parlare, opera. Marco, che secondo la tradizione fu discepolo di San Pietro (anche se lui non lo dice), scrive per i romani e non per gli ebrei: pertanto, fa scelte narrative in grado di folgorare il suo uditorio, che non avrebbe sopportato troppi riferimenti a concetti famigliari solo ai Giudei. Secondo Veronesi (io, personalmente, però non ne sono convinto) Marco conosceva la fonte Q (un Vangelo perduto da cui Luca e Matteo traggono le frasi di Gesù, le sue sentenze, i discorsi che gli mettono in bocca) ma volontariamente avrebbe soprasseduto su molte cose ritenendo che i suoi lettori avessero bisogno di altro, di fatti più che di prediche. E una delle scelte più interessanti è quella di far vedere come gli apostoli stessi non capissero quasi mai ciò che Gesù diceva loro, facendo persino delle brutte figure per la loro insipienza: Pierro e i compagni diventano insomma il punto di vista del lettore più duro di comprendonio, mentre quelli più scafati riescono a capire prima di loro e dunque si predispongono a credere. In questo senso Veronesi dice che il Vangelo di Marco è una perfetta macchina di conversione.

sabato 23 gennaio 2016

C'E' UN SOLO LEADER



C'E' UN SOLO LEADER
di Chiara Poli
Saldapress
2015, brossurato
320 pagine, 13.90 euro

Il sottotitolo spiega che si tratta di una "anatomia della serie TV 'The Walking Dead'". Il saggio è diviso in tre parti. La più corposa è la seconda, che contiene un commento a ciascun episodio delle prime cinque stagioni (con l'indicazione dei registi e degli sceneggiatori). Le recensioni di Chiara Poli (già pubblicate, per le prime stagioni, sul sito italiano della Fox) sono ottimi riassunti che mettono in evidenza anche i più piccoli particolari ma, al di là dell'utilità di richiamare alla memoria gli episodi e permettere di ripercorrere fin nei dettagli la trama del serial, non approfondiscono fino in fondo le metafore (le corrispondenze tra il mondo da incubo di "The Walking Dead" e la nostra società). Tuttavia la lettura è gradevole e offre un prontuario da consultazione. La prima parte racconta invece di come una serie a fumetti creata da Robert Kirkman sia stata trasportata in TV da Frank Darabont, facendo nascere un fenomeno di costume (la Poli fa riferimento anche al successo riscosso a Lucca Comics). Ci sono poi una disamina sui personaggi archetipici (sette) della tradizione letteraria che trovano riscontro nei protagonisti di "The Walking Dead" dando vita a un racconto corale, e alcuni interessanti considerazioni sulla figura dell'eroe, o del leader, incarnato da Rick Grimes (non sono d'accordo sul fatto che sia senza macchia e senza paura). Tutto degno di nota e di lettura ma, purtroppo, anche incompleto. E' vero che l'autrice fa riferimento ad altri libri (come "The Walking Dead Chronicles" di Paul Ruditis) e dichiara di non volersi sovrapporre e di intendere dedicarsi solo a un lavoro di approfondimento e di riflessione, tuttavia sarebbe stato meglio poter contare su una rielaborazione del materiale contenuto negli altri saggi, a beneficio di chi legge solo questo, e dunque offrire una panoramica completa sulla mitologia zombi e sul suo significato, e fornire una serie di risposte sulle modalità tecniche di realizzazione di un prodotto così elaborato e complesso. Un tentativo in questa direzione c'è nella terza parte, che fornisce una filmografia e una bibliografia zombi essenziali e senza analisi, ma secondo me si poteva dare di più.

venerdì 22 gennaio 2016

CIME TEMPESTOSE



CIME TEMPESTOSE
di Emily Brontë 
Crescere Edizioni
2011, 352 pagine
brossurato
7.90 euro

L'edizione che mi sono trovato fra le mani è, ovviamente, soltanto una delle cento altre che è possibile rintracciare, trattandosi di un classico della letteratura inglese disponibile nei cataloghi (presenti e passati) di molte Case editrici. Il titolo originale, "Wuthering Heights", è stato reso famoso anche da una celebre canzone di Kate Bush del 1978, una hit che nel questo alludeva proprio all'amore folle e malato di cui si racconta nel romanzo, uscito per la prima volta nel 1847 sotto pseudonimo. Emily Brontë si firmò infatti Ellis Bell, come del resto anche sua sorella Charlotte aveva pubblicato nello stesso anno "Jane Eyre" con il falso nome di Currer Bell (il pubblico dava minor credito alle autrici piuttosto che agli autori). Va detto anche che le sorelle Brontë (delle quali in Inghilterra si può ancora visitare la casa) erano tre: va aggiunta anche Anne, scrittrice a sua volta ("Agnes Grey", "Il segreto della signora in nero"). In ogni caso, "Cime tempestose" è l'unico romanzo di Emily, ed è un peccato perché si tratta di un racconto coinvolgente ed inquietante dalla struttura innovativa. 

Mi ci sono avvicinato dopo aver letto, non troppo tempo fa, un altro classico inglese di qualche anno precedente, "Orgoglio e pregiudizio" (1813), di Jane Austen. Trovato entusiasmante quello, mi sono convinto a saggiare qualche altro titolo del genere. In Emily Brontë si respira già il romanticismo da cui la più algida Austen ancora non poteva essere stata contagiata. "Wuthering Heights" è potente e drammatico nella descrizione delle passioni e dei sentimenti, allude alla presenza dei fantasmi e all'amore dopo la morte, coinvolge gli elementi naturali, descrive personaggi infami, dolci, forti e deboli in una grande varietà di situazioni psicologiche. La realtà sociale non è molto diversa da quella di "Pride and prejudice", ma qui si presta più attenzione alle classi più povere, a partire dal fatto che uno dei due io narranti è una nutrice e governante, Nelly Dean. Dico "io narranti" perché la novità è proprio questa: il narratore non è il dio onniscente che descrive dall'alto le vicende ma sono due personaggi diversi, e di diversa estrazione, il giovane e ricco Mister Loockwood e appunto Nelly, la sovrastante di Thrushcross Grange, la villa da lui affittata nella brughiera del North Yorkshire. Anzi, la magna pars della descrizione è affidata proprio a quest'ultima, invitata dal primo a raccontare i fatti accaduti nei trent'anni precedenti sia in quella casa che nella vicina dimora di Wuthering Heights, che dà il titolo al romanzo. A volte, all'interno della narrazione di Nelli si inseriscono, riferite da costei, le puntuali cronache dei fatti a lei riferire da altre persone, a giustificare la sua conoscenza degli avvenimenti. Il tutto crea un gioco di scatole cinesi che però coinvolge perché è come se realmente stessimo ascoltando le testimonianze riferire a circostanze reali. Poiché il romanzo comincia presentando la strana e quasi inspiegabile situazione di Wuthering Heights come si mostra agli occhi perplessi di Loockwwod (a cui pare addirittura di vedere uno spettro), ecco che una indagine sul passato incuriosisce subito il lettore. Alla fine, lo stesso Lookwood è testimone dell'imprevedibile sviluppo degli eventi nel finale della storia. 

Ma il vero protagonista d tutto il racconto è un inquietante e tormentato personaggio chiamato Heathcliff. Costui è un trovatello dalla pelle scura e il carattere indomabile, forse uno zingaro, trovato in un vicolo di Liverpool fa Mr. Earnshaw, il proprietario originale di Wuthering Heights, proponendolo come nuovo fratello ai suoi due figli, Hindley e Catherine. Heathcliff stringe un rapporto strettissimo con Cathy ma si guadagna l'odio di Hindley che, divenuto nuovo padrone di casa alla morte del padre e della madre, tormenta in ogni modo il fratellastro, abbrutendolo con il costringerlo nel lavoro dei campi. Heathcliff giura vendetta e il suo cure nero, ereditato da chissà chi, lo porta a organizzare la più terribile che si possa immaginare. Costui si sente poi tradito da Catherine, che sposa un raffinato vicino di casa, Edgar Linton, nonostante ami lui. La ragazza lo fa perché crede, così facendo, di poterlo meglio difendere dai soprusi di Hindley, ma Heathcliff fugge e per tre anni non se ne sa più nulla. Quando torna ha il denaro sufficiente per impadronirsi di Wuthering Heights rilevando i debiti del fratellastro, e divenendo tutore del figlio di lui, Hareton. Heathcliff plagia Hareton trasformandolo in un bruto psicologicamente dipedendente da ogni ogni suo volere. Quindi si dedica a vendicarsi di Edgar Linton prima sposando dopo una fuga e rendendo sua schiava la sorella di lui, poi tramando ogni sorta di cattiveria contro la figlia di Cathy, nata mentre la madre moriva di parto. A questo punto Heathcliff diviene ossessionato dal ricordo di Catherine, di cui avverte il fantasma, e si travaglia per vent'anni roso all'amore e dall'odio, continuando però perfidamente a tramare contro gli Earnshaw e i Linton. Non si può non essere turbati dall'incredibile malvagità del personaggio, chiaramente reso folle dalle sue passioni malate. Però, quando la sua vendetta sembra perfetta, ecco che il bene, la vita, l'amore inaspettatamente trovano il modo di incrinare il male... ma lascio a chi non lo conosce il gusto di scoprire il finale della storia.

giovedì 14 gennaio 2016

LA CAPANNA NELLA PALUDE E ALTRI RACCONTI




Durante l’edizione 2015 di Lucca Comics è uscito un volume a mia firma targato Cartoon Club, intitolato “La capanna nella palude e altri racconti”. Il libro, che conta 160 pagine, che raccoglie in un unico volume il romanzo di Zagor “Le mura di Jericho” e due altri racconti (in prosa) con protagonisti lo Spirito con la Scure, tra cui uno mai pubblicato prima.  Avventure di frontiera, ma anche di mistero e di magia nel segno della contaminazione tra i generi tipica delle storie del nostro eroe. La copertina inedita è opera di Gallieno Ferri, ma all’interno ci sono numerose illustrazioni realizzate appositamente da una decina di disegnatori zagoriani. 

L’opera si può acquistare in fumetteria ma anche on line nei vari store telematici o tramite il sito http://www.fumodichina.com. Però potete anche scrivere o telefonare a Cartoon Club (Via Circonvallazione Occidentale, 58, 47900 Rimini – tel. 0541 784193). 

La prima edizione de “Le mura di Jericho” (di cui vedete la copertina qui accanto e di cui ho parlato a lungo in questo spazio quando uscì) è da tempo esaurita e dunque si imponeva una ristampa. Però, anziché limitarsi a quella, Paolo Guiducci (l’editore) mi ha chiesto di pensare a come offrire ai lettori qualcosa di nuovo, e dunque gli ho proposto di aggiungere al romanzo già pubblicato anche il racconto “La capanna nella palude” scritto per un evento dedicato a Ferri a Santa Margherita Ligure, ma con sostanziali modifiche, più un altro breve testo del tutto inedito (quello a cui si riferisce appunto l’illustrazione di copertina), intitolato “La casa”. 

Il sottotitolo recita “Tre Dime Novels di Zagor”, dato che in effetti si tratta proprio di letteratura pulp. A questo proposto, ecco il testo con cui ho presentato proprio questo ultimo racconto inedito.


Non aprite quella porta
di Moreno Burattini

Nella sua prefazione al primo racconto di questo volume, “Le mura di Jericho”, Giuseppe Pollicelli ha giustamente tirato in ballo i “dime novels”, o “romanzi da quattro soldi” che negli USA ripresero la tradizione dei  “penny dreadful” (cioè “orrore da uno spicciolo”),  pubblicati ancor prima in Inghilterra: un tipo di narrativa che, a partire dagli anni Trenta del diciannovesimo secolo, proponeva nel Regno Unito storie a puntate, con periodicità perlopiù settimanale, al costo di un penny per fascicolo. La definizione comprende una grande varietà di pubblicazioni, specializzate in romanzi avventurosi, a volte molto truculenti, sempre comunque scritti in tono sensazionalistico, puntando a sorprendere, inorridire, commuovere o comunque turbare il pubblico, composto soprattutto da acquirenti delle classi povere. Gli agili opuscoli potevano essere venduti a buon mercato anche perché venivano stampati su carta molto scadente, ricavata dalla cosiddetta “polpa” di cellulosa, la stessa da cui deriva il termine “pulp”, che indica la produzione artistica più popolare.

Illustrazione di Jevito Nuccio per
"Le mura di Jericho"
Venendo ad anni più recenti, con la definizione di “pulp magazine” si sono identificate alcune riviste di genere americane come “Weird Tales”, pubblicata a Chicago a partire dal 1923 e destinata a contenere racconti horror e fantastici: vi scrissero sopra autori come Robert Ervin Howard, Howard Phillips Lovecraft e Clark Ashton Smith. Già in precedenza, nel 1920, era nata però “Black Mask”, una rivista prevalentemente poliziesca ma che in realtà presentava, come recitava una pubblicità dell’epoca, "le migliori storie di avventura, i migliori mystery, le migliori storie romantiche e dell’occulto”. Data 1926 è invece “Amazing Stories”, con racconti di genere fantascientifico. Queste e (molte) altre testate del genere diedero il via anche a una vastissima produzione di fumetti “weird” (cioè, “bizzarri”) pubblicati su riviste come “Teles fron the crypt” (1950) o  “Creepy” (1964), per citare soltanto due fra le più illustri. Insomma, stiamo parlando di una incredibilmente vasta produzione di racconti brevi, fulminanti, per lo più horror e con un finale a sorpresa: un genere che può vantare perfino Edgar Allan Poe tra i suoi precursori. Nel filone rientrano anche serie di telefilm come “Twilight Zone” (“Ai confini della realtà”) o “Alfred Hitchcock presenta”. Come chissà quanti altri aspiranti scrittori ho sempre sognato di poter, un giorno, dare alle stampe una antologia di storielle di quattro o cinque pagine di questo tipo. I cassetti degli ex-ragazzi di mezzo mondo (almeno quelli cresciuti a pane ed EC Comics, o leggendo i “Racconti del Terrore” di Stan Lee pubblicati sugli Eureka Pocket) traboccano di raccontini del genere, a giudicare da quelli che vengono proposti sulle riviste o le antologie riservate agli esordienti. Per fortuna mia e dei miei lettori, i cento e passa short tales che ho accumulato nel tempo sono sempre rimasti sotto chiave. Però, trovandomi a dover (e voler) corredare il libro che avete tra le mani con un testo inedito più breve degli altri, ho pensato di rendere omaggio a questa tradizione che, indubbiamente, ha arricchito e divertito la mia vita. Del resto, Zagor si presta alle contaminazioni di ogni genere: ben venga anche questa.

mercoledì 13 gennaio 2016

SAN PIETRO


SAN PIETRO
di Alberto Angela
Rizzoli, 2015
cartonato
430 pagine, 22 euro

"Segreti e meraviglie in un racconto lungo duemila anni", spiega il sottotitolo: venti secoli di storia, infatti, sono quelli che la Basilica di San Pietro a Roma è in grado di rievocare a chi voglia ripercorrerne a ritroso le modifiche fino all'epoca di Caligola, imperatore a partire dal 37 d.C., che fece iniziare a costruire proprio sul colle Vaticano un ippodromo che venne completato da Nerone, il quale addirittura vi si esibiva come auriga. Proprio da questo galoppatoio parte la ricostruzione storica di Alberto Angela, gradevolissimo divulgatore. Il luogo divenne, dopo il famoso incendio del 64 d.C., luogo di esecuzioni dei cristiani perseguitati, e fra le vittime ci fu (così almeno si narra) anche San Pietro, che vi venne sepolto. La sua tomba si trasformò subito in luogo di venerazione e meta di pellegrinaggi. Nel frattempo il circo aveva perso la sua funzione ludica ed era divenuto una necropoli, ancora oggi in parte visitabile sotto l'attuale Basilica, con numerosi sepolcri di famiglie romane, prima pagane poi progressivamente cristiane. Finché, nel IV secolo, l'imperatore Costantino fece costruire, sulla tomba di San Pietro (i cui resti ancora in parte rimangono), una prima grande chiesa, edificata sulla necropoli che venne interrata spianando il colle soprastante. La grande Basilica costantiniana avrebbe accolto i pellegrini per oltre milleduecento anni, e divenne ricchissima di opere d'arte nonostante alcuni saccheggi, tra cui quello di predoni saraceni nell'846. Quando cominciò a dar cenni di cedimento e di usura, nei primi anni del Cinquecento papa Giulio II decise di costruirne una nuova, che progressivamente prese il posto di quella vecchia. Il primo architetto incaricato di elaborare un progetto fu Bramante, ma poi con il susseguirsi degli anni e dei pontefici furono innumerevoli gli artisti chiamati a proseguire i lavori e a modificare anche radicalmente l'opera dei predecessori. Finché, con Urbano VIII, nel 1626, la nuova Basilica poté dirsi ultimata, anche se il colonnato esterno fu completato da Bernini solo cinquant'anni dopo. Alberto Angela dedica ampio spazio anche a Castel Sant'Angelo, la fortezza edificata sui resti del Mausoleo di Adriano sulla riva del Tevere, e in ogni caso esamina punto per punto pure le decorazioni interne della Cupola di Michelangelo, così come delle sagrestie e delle Grotte Vaticane. Il tutto è corredato da foto, piantine e disegni. La disanima è di facile lettura e puntellata di curiosità (spesso racchiuse in appositi box di approfondimento, come si farebbe in una rivista). Chiaramente, tanta leggibilità va a discapito dell'approfondimento scientifico: il tono quello della divulgazione televisiva, le informazioni sono semplificate: si punta a meravigliare e a farsi seguire più che a citare le fonti. Il lettore a cui Angela si rivolge non è l'esperto ma il profano. Il che, una volta prese le misure, va benissimo: l'opera è meritoria.

domenica 10 gennaio 2016

IL SEGRETARIO GALANTE




IL SEGRETARIO GALANTE
di Cesare Causa
Collezione Salani, 1936 
Riedizione anastatica RBA 
2012

Si tratta di un volume della benemerita "Biblioteca del Ricordo" che ristampa nel formato originale i libri di scuola, devozionali, di manualistica spicciola o di letteratura per l'infanzia che leggevano i nostri nonni a tra gli anni Dieci e gli anni Trenta (e di cui abbiamo già parlato). "Il segretario galante", testo di una strepitosa comicità involontaria, ha come sottotitolo "Per imparare a scrivere lettere amorose, di discordia e di accomodamento con aggiuntovi l'epistolario amoroso degli amanti celebri". 

Si tratta, insomma, di un manuale per compilare missive d'amore, ma anche di litigio (se il caso), in anni in cui, mancando le chat e gli sms, gli innamorati (almeno quelli di un certo livello sociale) tenevano rapporti per via epistolare se non erano conviventi. Siccome non tutti avevano la penna facile e la risposta pronta, e un vocabolario abbastanza ricco nel proprio bagaglio culturale, ecco che Cesare Causa offre con dovizia lettere già pronte da copiare. Copiare, sì, ma con qualche accortezza. "E' utile avvertire", scrive infatti l'autore, "di non copiare letteralmente le lettere scelte per modello, ma cambiarle e adattarle in qualche parte e adattarle a seconda delle persone e delle circostanze. Se seguirete questo consiglio, scriverete delle bellissime lettere, e nessuno potrà dirvi che le avete copiate". Mi immagino il rammarico di chi inviava missive alla fidanzata sul modello suggerito, e riceveva puntuali risposte anch'esse ricalcate sui suggerimenti del Causa.
Tra le frasi amorose suggerite ce ne sono alcune come quella di chi sospirando confessa di "pronunziare una parola coll'accento ch'ella sola adopera", e fin qui tutto bene, ma anche di "vendere una casa in cui ella è caduta scendendo le scale". Vedi te per un'impedita che ti tocca a fare. Ma c'è di peggio: "baciare un cavallo ch'ella ha accarezzato", e vabbé, fa un po' schifo ma Edoardo Stoppa potrebbe ancora ancora approvare, ma anche "far morire un cavallo per portare alla nonna di lei un rosario dimenticato in un casa di campagna, distante venti miglia dalla città". Ci sono poi i "segnali convenuti", per potersi scambiare messaggi senza proferir parola, magari in un luogo pubblico dove non sia possibile avvicinarsi. Per esempio, "la soffiata di naso corrisponde al rullo del tamburo, perché richiama l'attenzione di chi la sente". Invece "asciugarsi la bocca con il fazzoletto vuol dire mandare un bacio al suo indirizzo", e rispondere con il medesimo gesto indica il voler contraccambiare. Spero che il fazzoletto non fosse lo stesso della strombata precedente. C'è tutta una simbologia, ovviamente, con i cannocchiali di teatro, il ventaglio, il sigaro. Il sigaro tenuto all'angolo sinistro della bocca, per esempio, vuol dire "io ardo e mi consumo per voi", togliersi il sigaro di bocca e portarlo dietro la schiena significa "vorrei parlarvi nascostamente". Chissà quanta gente, non sapendolo, ha fatto dei discorsi osceni solo perché non gli si accendeva la sigaretta e se l'è tolta e rimessa un bocca più volte. 
Quando si arriva alle lettere vere e proprie, è bello vedere l'inizio di alcune: "Signorina! Ebbi il piacere di vederla e udir la sua voce incantevole". Mi piace il punto esclamativo dopo "signorina". Lei risponde: "Signore, non le nascondo che la sua lettera mi ha oltremodo lusingata". E alla fine: "Le auguro dunque, per entrambi, un lieto successo presso mio padre". Si tratta infatti di ottenere dal babbo di lei "il permesso di fare all'amore", intendendo, alla vecchia maniera, l'autorizzazione al corteggiamento. Il campionario è amplissimo. 
Ma ci sono anche le lettere di litigio. Eccone una: "Donna infedele! Ora che dirai? Tutte le ciarle e le astuzie delle quali è capace il bel sesso, potranno scusare con fondamento ciò che purtroppo questa mattina hanno con evidenza osservato gli occhi miei? Bisogna credere che tu abbia degli interessi molto ma molto importanti con quella persona con la quale io ti ho veduta oggi in uno stretto colloquio. Donna menzognera! Sono dunque questi i sogni della nostra felicità, i giuramenti, la fede promessa? Ti ho finalmente scoperta!". Al che, oggi lei risponderebbe con un sonoro "ma vaffanculo!". Invece, ecco la formula che suggerisce il Causa: "Uomo indiscreto! Se tu riflettessi come sono ingiusti e vani i tuoi sospetti, son persuasa che ti vergogneresti di averli concepiti, e che cercheresti il modo di ritrattarli. Sai tu chi era quello con cui mi vedesti in stretto colloquio ieri mattina? Era mio fratello Daniele, arrivato martedì da Pisa, dove studia Giurisprudenza a quella università". Si, si. E le ha fatto vedere la torre. Risate garantite per 430 pagine.

giovedì 7 gennaio 2016

L'ASSASSINIO DI RUE SAINT-ROCHE



L'ASSASSINIO DI RUE SAINT-ROCHE
di Alexandre Dumas
a cura di Ugo Cundari
Dalai Editore
120 pagine
2012, 12.90 euro

"E se non fosse stato Edgar Allan Poe a scrivere 'I delitti della Rue Morgue'?", domanda perfidamente una frase in quarta di copertina. E in questo dubbio sta tutto il fascino del libro, che si giustifica di fatto proprio dal confronto fra il giallo di Dumas e quello di Poe, ritenuto il primo poliziesco della storia. Ugo Cundari ha infatti ritrovato per caso, in una biblioteca napoletana, un racconto pubblicato dall'autore dei "Tre Moschettieri" su un giornale partenopeo, l' "Indipendente", di cui fu direttore fra il 1860 e il 1864. Si tratta, per la precisione, di un testo apparso a puntate tra il 28 dicembre 1860 e l'8 gennaio 1861, di cui esistono, negli archivi di tutto il mondo, pochissime copie, e che era, fino a poco tempo fa, praticamente sconosciuto. Dumas lo dettò, in francese, a uno scrivano e venne immediatamente tradotto in italiano per poter comparire sul giornale, come si faceva per tutto quello che lo scrittore francese preparava, con la sua solita vulcanicità, per il quotidiano napoletano. La versione proposta da Dalai è appunto quella della traduzione dell'epoca. La lettura de "L'assassinio di Rue Saint-Roche" lascia del tutto sbigottiti, perché si tratta di un clamoroso plagio dei "Delitti di Rue Morgue" di Poe. Stessa ambientazione parigina, stessa situazione, stesse vittime, stessa soluzione del caso. Non solo: anche i particolari sono i medesimi, dalle voci provenienti dalla casa chiusa scambiate dai vicini per lingue straniere sempre diverse, al dettaglio delle finestre inchiodate. Che cosa cambia? Cambia, innanzitutto, il fatto che il detective risolutore del caso è lo stesso Edgar Allan Poe. Cioè Dumas racconta di aver incontrato lo scrittore americano a Parigi nel 1832 e, mentre era in sua compagnia, di averlo veduto incuriosirsi di un caso descritto sui giornali e quindi indagare sulla faccenda fino a venirne a capo. Ora, i "Delitti della Rue Morgue" è stato pubblicato nel 1841, dunque vent'anni prima il racconto di Dumas. Dunque tutto lascia pensare che sia stato lo scrittore francese a copiare Poe. Il che non sarebbe neppure improbabile, essendo Dumas uso ad attingere a piene mani di qua e di là, al punto da aver subito diversi processi con l'accusa di appropriazione indebita di scritti altrui. Però, la questione non è così semplice. Nella sua lunga e avvincente postfazione, Cundari elenca tutta una serie di circostanze misteriose. Tanto per cominciare, anche nel racconto di Poe compare un Dumas, che è uno dei personaggi secondari. Una combinazione? E se Dumas e Poe si fossero davvero incontrati, nel 1832? Perché, infatti, Poe ambienta proprio a Parigi il suo giallo, e non a Boston o Philadelphia? Come può conoscere così bene la capitale francese, com'è dimostrato dal suo testo? La biografia di Poe è, incredibilmente, misteriosa e lacunosa sui suoi spostamenti in quell'anno e ci sono testimonianze che lo vogliono in Russia, in Francia, in Inghilterra. Il curatore elenca una serie impressionante di indizi che sembrano far supporre che il contatto ci sia stato, e che una bozza di racconto possa essere stato visto e letto da Poe, oppure discusso con Dumas, che sarebbe stato però l'artefice dell'opera, avendone collocato l'azione su uno sfondo parigino che l'americano non aveva ragione di usare. Personalmente, dovendo emettere un verdetto, protendo per un semplice plagio del francese. Tuttavia ammetto che Cundari è riuscito a instillarmi il dubbio.

domenica 3 gennaio 2016

LA FIGLIA DEL MERCANTE DI CAVALLI



LA FIGLIA DEL MERCANTE DI CAVALLI
di David Herbert Lawrence
Edizioni Corriere della Sera,
2013, brossurato
100 pagine, 2.90 euro

Abbiamo già parlato, lodando l'iniziativa, di questa serie di volumetti uscita in edicola alcuni anni fa in allegato al Corriere della Sera, e denominata "Twin Stories - Piccoli capolavori che fanno grande il tuo inglese". "Storie gemelle" perché la traduzione italiana ha il testo originale a fronte e, in basso, ci sono note di grammatica e di stile per chi volesse approfondire la conoscenza della lingua. Lawrence era già stato ospitato nella collana, con "Biglietti, prego", da me recensito qui.

Lawrence è l'autore del celebre romanzo "L'amante di Lady Chatterley": uno scrittore inquieto, che soffriva l'ansia dei suoi tempi in cui l'industrializzazione, la modernizzazione, la ricerca del profitto, il ritmo frenetico della vita sociale, la civilizzazione stessa gli sembravano opprimere la naturale vita emotiva, interiore, dell'uomo, e interrompere il flusso vitale fra la sua anima e quella del cosmo. Di umili origini (suo padre era minatore), morì giovane, a 45 anni, nel 1930, e la sua breve vita fu segnata dalla tragedia della Prima Guerra Mondiale, a cui non partecipò per le sue condizioni di salute (era tubercolotico) ma che influì sulla sua percezione della società come qualcosa di più ammalata di lui. Marito più giovane di una baronessa (vedova e fedifraga) che gli permise di viaggiare il mondo con lei in cerca di spazi aperti e incontaminati in cui respirare (unica cosa che sembrava giovare alla sua malattia), Lawrence visse poco ma scrisse moltissimo, spesso dando scandalo per l'audacia della sua prosa. "La figlia del mercante di cavalli", datata 1922, è una novella dalla trama semplicissima che mette il dito, però, nella piaga della condizione femminile nella società post-vittoriana, ancora chiusa e legata alle convenzioni sociali. Per Mabel Pervin, giovane donna nubile coinvolta nel crack economico della sua famiglia, sembra non esserci futuro se non quello di finire a fare la serva. I fratelli, rozzi e insensibili, pensano solo a salvare se stessi. La ragazza, che non vuol cedere a questo destino così diverso da quello delle sue aspirazioni, ma che corrisponde a quello che le regole della società le impongono (la libertà esiste solo per i ricchi), tenta il suicidio gettandosi in uno stagno. Il caso vuole che a soccorrerla sia un giovane medico, Jack Fergusson, anch'egli con i suoi problemi economici ed esistenziali (vive del proprio lavoro senza altri redditi), che la salva e la conduce a casa sua. La passione che scoppia fra i due permette a entrambi di dare un senso alle loro vite: il contatto sensuale pelle a pelle del salvataggio e delle cure rompe l'algidità dei rapporti formali.

sabato 2 gennaio 2016

GLI ULTIMI GIORNI DI P. B. SHELLEY



GLI  ULTIMI GIORNI DI P. B. SHELLEY
di Guido Biagi
La Vita Felice
2013, brossurato
36 pagine, 12 euro

Il poeta inglese Percy Bysshe Shelley, nato nel Sussex nel 1792, morì per il naufragio della sua barca nel mare antistante Viareggio nell'estate del 1822. Le circostanze della morte e del ritrovamento del cadavere, con il rogo del corpo che ne seguì e l'espiantazione del suo cuore consegnato poi alla vedova Mary Wollstonecraft (l'autrice di "Frankenstein") sono assolutamente romanzesche per quanto storiche. Guido Biagi, letterato fiorentino vissuto tra il 1855 e il 1925, scrisse questo suo documentatissimo saggio nel 1892, settant'anni dopo, cioè, i tragico fatti di cui narra. Poté, dunque, intervistare personalmente alcuni viareggini molto anziani che però, da giovani o da bambini, avevano assistito alla cremazione del corpo di Shelley sulla spiaggia, alla presenza di Lord Byron e di Edward Trelawany (l'uomo che quando il petto del poeta si aprì per il calore sulla lastra di metallo su cui i resti erano stati deposti, ne estrasse il cuore a costo di ustionarsi le mani). Di questi testimoni oculari non soltanto vengono citati i nomi, ma se ne forniscono anche i suggestivi ritratti realizzati durante le interviste. Maria Giuseppina Malfatti Angelantoni firma una preziosa prefazione alla ristampa del saggio, in cui si ricostruisci la genesi del libro ma anche si inserisce nel contesto di una storiografia anche più recente che comunque sulla materia non ha aggiunto niente che smentisca la ricostruzione puntuale del Biagi. Dal canto suo, Giulio Cesare Maggi aggiunge una postfazione che spiega la sorte che i resti di Percy ebbero dopo la cremazione e in particolare fa delle ipotesi sul famoso cuore incombusto. Va detto che il corpo non venne cremato per un rito pagano, come qualcuno sospettò creando scandalo nella società dell'epoca, ma perché le leggi del Granducato di Toscana, molto severe nel prevenire i rischi di epidemie, vietavano il trasporto di cadaveri in decomposizione, che dovevano essere o interrati o bruciati sul luogo del ritrovamento. Il Biagi ricostruisce comunque tutta la vicenda fin dal momento in cui Shelley e alcuni amici decisero di affittare una casa sul mare a Lerici, esattamente a San Terenzio (nei pressi di La Spezia), dove trascorrere l'estate e venne costruita una barca, uno shooner, con cui compiere viaggi lungo la costa e brevi escursioni. Il vascello, battezzato "Ariel", aveva degli evidenti difetti di fabbricazione a cui non fu dato peso. I giorni in Liguria precedenti la tragedia erano stati inquieti: a Mary incinta non piacevano la casa e la povertà del borgo, Percy, turbato, non riusciva a comporre e aveva avuto dei dissidi con Byron. Tuttavia si imbarcò, con il capitano Williams a cui era affidato l'Ariel, alla volta di Livorno per far visita a un amico, William Hunt, il 1° luglio 1822. Percy e Hunt fecero visita a Lord Byron a Pisa, poi l'Ariel riprese il mare per far ritorno a San Terenzio, nonostante tutti gli esperti marinai livornesi sconsiglissero la navigazione per la burrasca che si stava preparando. Hunt regalò a Percy una copia del poema "Hyperion" di Keats, che Shelley si mise in tasca: fu questo libro che permise il riconoscimento del cadavere quando, alcuni giorni dopo, il suo corpo fu ritrovato sulla spiaggia di Viareggio insieme a quello del capitano Williamson.