domenica 28 febbraio 2016

TEMPO DI UCCIDERE


TEMPO DI UCCIDERE
di Ennio Flaiano 
Edizione Mondolibri Mondadori 
su licenza Longanesi 
1968, cartonato
276 pagine

E' l'unico romanzo di Ennio Flaiano, brillante giornalista, critico letterario e cinematografico, sceneggiatore di film, autore di fulminanti aforismi, spirito libero e sagace (pescarese, classe 1910, morto nel 1972). Uscito nel 1947, vinse la prima edizione del Premio Strega, battendo inaspettatamente scrittori molto più illustri. E meritatamente, essendo "Tempo di uccidere" un libro imperdibile. Incredibilmente moderno, per stile, tematiche, ritmo, nonostante la data di uscita e le caratteristiche della narrativa dell'epoca. Accattivante e drammatico al tempo stesso, ugualmente al tempo stesso intriso di italianità e di universalità, è ambientato durante la Guerra d'Etiopia, durante il fascismo, un'esperienza a cui l'autore parecipò davvero, e di cui scrisse su invito di Leo Longanesi, che poi gli pubblicò il romanzo. Protagonista ne è un giovane tenente italiano, che rimane anonimo, il quale, per una serie di vicissitudini, si smarrisce nella boscaglia africana e lì si imbatte in una donna di colore che fa il bagno, nuda, in una pozza d'acqua. Un po' per forza, un po' rassegnazione, un po' anche per complicità, l'etiope cede alle pressioni del militare che consuma con lei un rapporto sessuale. Dopodiché, però, sembra non volerlo lasciare andare, come se lei intendesse instaurato fra loro due un qualche tipo di legame. L'uomo non sa come comportarsi, e per un paio di giorni si intrattiene con lei, che si chiama Mariam, tra gli alberi, l'ombra dei quali diventa la loro alcova. Ma, una notte, accade un incidente: spaventato dai movimenti di grossi animali, forse leoni, nei dintorni del bivacco, il tenente spara verso l'oscurità e uno dei proiettili, rimbalzando, colpisce l'addome della ragazza, ferendola gravemente. Angosciato, senza sapere che fare, dove andare, temendo conseguenze, preoccupato anche dalle sofferenze della donna, l'ufficiale decide di finirla con un colpo in testa. E quindi la seppellisce sotto un cumulo di pietre. Tornato al reparto, il militare crede di poter chiudere l'accaduto in un cofano della memoria e buttar via la chiave. Invece, una strana piaga che si crea su una mano lo convince di essere stato contagiato dalla lebbra: in effetti la donna viveva isolata, come era usanza presso le tribù africane. Il tenente si vede perduto, crede finito il suo matrimonio (ha una moglie in Italia), teme di finire in un ospedale per il resto dei suoi giorni, e si convince anche che il suo delitto finirà per essere scoperto: anzi, un vecchio etiope e un bambino di colore, gli unici sfuggiti a una strage che ha coinvolto il villaggio di Mariam, sembrano perseguitarlo, pur senza minacciarlo, come se sapessero ciò che ha fatto. Convinto di venire denunciato da un medico a cui ha mostrato la piaga, l'ufficiale approfitta di quaranta giorni di licenza per fuggire nella boscaglia, e si rifugia proprio presso il vecchio, con cui convive per più di un mese, tormentato dal rimorso e dalla convinzione di essere già braccato dai carabinieri che lo cercano. Alla fine, quando ha scoperto che il vecchio è il padre di Mariam e che sa tutto della sorte di lei, fra i due si è creato un legame: l'uomo esamina la ferita dell'assassino della figlia. Non è lebbra: basterà un suo impiastro per curarla. Il tenente torna al suo reparto: poiché era in licenza, nessuno lo cerca, nessuno vuole arrestarlo, nessuno lo accusa di niente. Anzi, è previsto un ritiro delle truppe e il ritorno a casa, in Italia. Un meraviglioso apologo sulla colpa, sul senso di colpa, sull'elaborazione della colpa, sul percorso da fare per uscirne fuori, sul perdono. Ma anche sulla percezione della realtà e su come i nostri atti, tutti, abbiano conseguenze imprevedibili. Una storia allucinata ma realistica al tempo stesso. Non c'è bisogno di abbandonare gli agganci al reale per proporre delle metafore. La realtà è la metafora di se stessa.

giovedì 25 febbraio 2016

UN ANNO SULL’ALTIPIANO



UN ANNO SULL’ALTIPIANO
di Emilio Lussu
Tascabili Einaudi
brossurato,
216 pagine

“Il lettore non troverà, in questo libro, né il romanzo né la storia. Sono ricordi personali, riordinati alla meglio e limitati ad un anno, fra i quattro di guerra a cui ho preso parte. Io non ho raccontato che quello che ho visto e mi ha maggiormente colpito”: così Emilio Lussu presenta la sua opera nella prefazione del 1936, anno in cui la compose. La guerra a cui si allude è la Prima Guerra Mondiale, l’ “altipiano” del titolo è quello di Asiago. Il fronte è quello delle trincee fra italiani e austriaci. Vi credo di credermi sulla parola: è un libro da leggere. Uno di quelli di cui bisogna fare esperienza almeno una volta nella vita. Dopo averne divorate le pagine, ho voluto visitare personalmente i luoghi descritti da Lussu, e percorrere i fossati dell’Ortigara. Pubblicato a Parigi nel 1938, dato che l’autore si trovava in Francia in esilio perché perseguitato politico, “Un anno sull’altipiano” esce in Italia soltanto nel 1945 per Einaudi, e se ne capisce il motivo: è un libro micidiale nei confronti delle gerarchie militari, e decisamente smitizzante rispetto all’idea del “credere, obbedire e combattere”. La guerra ci appare in tutta la sua irrazionalità e il suo non senso: e pensare che Lussu era stato, prima di trovarsi al fronte, un acceso interventista. I fatti raccontati si svolgono tra il giugno del 1916 e il luglio del 1917, e non c’è una vera e propria trama ma un succedersi di episodi collegati fra di loro dalla figura dell’io narrante, all’epoca giovane tenente, e da alcuni personaggi ricorrenti, altri ufficiali ma soprattutto soldati della truppa, desiderosi per lo più soltanto di sopravvivere il più a lungo possibile, e pronti talvolta a farsi saltare le cervella da soli (ma anche, talvolta, mandati a morire in modo assurdo dai superiori ). Alcuni degli episodi sono agghiaccianti, come i racconti delle decimazioni (se un reparto sembrava non dar prova di ardimento bellico, si fucilava un soldato ogni dieci per convincere gli altri a un maggiore impegno). Talvolta, l’orrore sfuma in umorismo nero, come quando un alto ufficiale in visita viene volutamente fatto affacciare dai soldati da una feritoia dove si sa che un cecchino avversario piazza un colpo in testa a chiunque provi a sbirciare fuori. Non si esce indifferenti dall’Altopiano di Lussu, e si capisce come la storia dei soldati in trincea sia cosa diversa da quella studiata sui libri di scuola.

mercoledì 24 febbraio 2016

LA MORTE DI MARX E ALTRI RACCONTI



Sebastiano Vassalli
LA MORTE DI MARX E ALTRI RACCONTI
Edizioni Il Sole 24 Ore
2015, brossurato
80 pagine, euro 2,50

L'edizione di questo libro che mi è capitata fra le mani fa parte della collana "I libri della domenica" allegati al quotidiano "Il Sole 24 Ore": originariamente l'omonima antologie era uscita per Einaudi nel 2006. Il piccolo formato ben si addice alla lettura domenicale, in qualche momento di ozio casalingo, ma in generale i racconti (tutti, di qualunque autore, all'interno di qualsiasi raccolta anche più corposa) sono fatti per essere gustati a spizzichi e bocconi dove e quando capita e meraviglia che non godano di più successo presso il pubblico che, come si sa, preferisce i romanzi. Ho letto, a proposito de "La morte di Marx", il commento scandalizzato di un lettore deluso che si chiede dove sia finito il Vassalli del romanzi storici come "La Chimera", non avendo apprezzato l'apparente leggerezza di questi testi più brevi. Evidentemente non ci si rende conto di come i racconti non debbano e non possano avere le stesse caratteristiche dei testi più lunghi, altrimenti non sarebbero racconti. Lo scrittore deve sperimentare tecniche e forme diverse e perfino concedersi la libertà di essere più lieve approfittando delle poche pagine a disposizione. Lievità che poi non significa banalità o superficialità, come dimostrano mille esempi (ci sono stati persino Premi Nobel per la Letteratura attribuito a chi ha scritto soltanto storie brevi o brevissime). Ma veniamo a Vassalli. Nato nel 1941 a Genova da madre toscana e padre lombardo, si trasferisce ben presto a Novara e si laurea a Milano. Negli anni Sessanta e Settant, oltre a insegnare, conduce ricerca artistica nell'ambito della Neoavanguardiae fa parte dell Gruppo 63. Poi approda alla letteratura, in particolare al romanzo storico, alla ricerca, come egli afferma, "delle radici e dei segni di un passato che illumini l'inquietudine del presente". Ha collaborato con "la Repubblica", "La Stampa", il "Corriere della Sera" e "Panorama". E' morto a Casale Monferrato nel 2015. 

Il racconto più bello e significativo della raccolta di cui ci stiamo occupando è senza dubbio "La morte di Marx", il cui protagonista non è il filosofo tedesco ma un professore di filosofia venuto proprio dalla Germania ad abitare sulla Riviera ligure e da tutti soprannominato Marx proprio per la sua somiglianza anche fisica con l'autore del "Capitale". Persona colta e agita, dai modi raffinati e benvoluto da tutti, Marx però coltiva amicizie omosessuali con giovani balordi e violenti, da cui alla fine finisce per venire ucciso nonostante l'evidente pericolo che certe frequentazioni rappresentano. Il professore viene ripetutamente messo in guardia dal non far entrare in casa persone a rischio, ma lui invita cordialmente chi glielo dice a farsi i fatti suoi. Eppure, quanto a studi, sapienza, intelletto, Marx dimostra doti superiori a chiunque: ma la parte irrazionale e passionale prende il sopravvento in ogni uomo. Le ideologie, sembra dirci Vassalli, sono utopie che si scontrano con il turbinare delle pulsioni. Non è un caso che il Marx del racconto si chiami proprio Marx: “L'umanità migliora uomo per uomo perché è composta di individui. Noi non siamo un'entità collettiva come le formiche o le api; e impiegheremo ancora chissà quanti millenni per diventare davvero civili”. Un altro racconto che fa pensare è "Dialogo sulla democrazia", costruito proprio come un testo leopardiano (sulla falsariga dello scambio di opinioni del viaggiatore e del venditore di almanacchi): in questo caso un convinto assertore dell'importanza del voto con uno scettico convinto che la democrazia sia solo una illusione: “L'uomo elettore è strettamente imparentato all'uomo consumatore creato dall'industria e all'uomo spettatore creato dalla televisione”. Molto bello il nostalgico "Abitare il vento", in cui un uomo torna sull'isola in cui ha vissuto da ragazzo e la trova deturpata perdendo illusione coltivata nei suoi ricordi, e drammatici i testi in cui si dimostra come l'automobile sia la moderna corazza dei guerrieri. Testi tutto molto brevi, brillanti, facili da fruire ma in grado di lasciare amare riflessioni su cui meditare.

martedì 23 febbraio 2016

L'ODORE DI FRAGOLE ROSSE


Se permettete, questa volta parliamo di quella cosa che, per dirla con il pittore francese Gustave Courbert, potremmo definire l' "Origine del Mondo", dal titolo di un suo quadro del 1866 esposto al Museo d'Orsay di Parigi (quello che vedete qua accanto). Oppure, del soggetto di un altro dipinto, meno famoso ma non meno bello, un'opera del trentino Paolo Vallorz datata 1970: "Ritratto di Alessandra" (più in basso), in cui l'unica porzione raffigurata del corpo della ragazza in questione, che intravede fra il drappeggio della biancheria intima, è proprio quella più interessante: la sineddoche per eccellenza, la parte per il tutto. Cesare Zavattini ha scritto una volta una poesia in dialetto mantovano (o, per la precisione, luzzarese), intitolata "Diu", cioè "Dio", in cui porta la sineddoche di cui sopra alle estreme conseguenze. I primi due versi, infatti, dicono: "Diu al ghè. / S'a ghè la figa al ghè". Dio c'è. Se c'è quella cosa lì, c'è. 

Più o meno lo stesso concetto è quello espresso da un altro poeta italiano, Giovanni Pascoli, in quella che io reputo la sua poesia più bella, "Il gelsomino notturno". Lì, la parte di Alessandra raffigurata da Vallorz viene descritta come un calice aperto e un'urna "molle e segreta", perché il Pascoli è un bravo ragazzo, più morigerato di Zavattini. Però, sempre di quella si tratta e c'è da ringraziarne il Padreterno. Il poeta di Castelvecchio ci aggiunge però anche l'elemento olfattivo, che non è da trascurare, come ben sanno i pratici e gli intenditori, e scrive così: "Dai calici aperti s'esala / l'odore di fragole rosse". E' la più sensuale definizione poetica dell'afrore magico e misterioso del sesso che io abbia letto. Qualcosa di più e di diverso dal semplice, inebriante odore che emano i genitali femminili, appunto "l'urna molle e segreta" cui si accenna nei due versi finali della poesia. E' il richiamo ancestrale, il desiderio, l'attrazione irresistibile che gli uomini e le donne provano vicendevolmente. Pascoli parla da uomo, ma troverei limitata e sbagliata una interpretazione dell'odore di fragole rosse come il semplice richiamo femminile. 

C'è un'altra poesia pascoliana, "Digitale purpurea" (del 1898, contenuta in "Primi poemetti"), anch'essa dedicata a un fiore. Lì, è una donna a venire irresistibilmente attratta dal profumo della pianta proibita perché, le avevano detto delle suore, velenosa e mortale, ma che nonostante tutto è "un miele che inebria l'aria", una fragranza psicotropa che "bagna l'anima d'un oblìo dolce e crudele". 

Eppure, il Pascoli non era, stando a quel si dice e si sa, propriamente né un pratico né un intenditore, vista la vita morigerata e castigata che faceva, o era costretto a fare, praticamente segregato dalla sorella Maria, detta Mariù. Tuttavia, sentiva anche lui i ferormoni nell'aria e, soprattutto, era un magico descrittore perfino delle sfumature dei turbamenti dell'anima. 

Ma perché vi sto dicendo tutto questo? Per mantenere una promessa. Proprio quando ho citato "Digitale purpurea" mi è stato chiesto da Massimo di Massa, anche lui un cultore del poeta romagnolo, di tornare sull'argomento: "Voto ovviamente entusiasta alla tua proposta di un post pascoliano, o magari una mini-sezione. Oh, parli pure della Sindone e dei cerchi del grano... che c'entrano con i fumetti, no? Eppure ce li leggiamo eccome, questi post. Quindi vai col gelsomino notturno, poesia da me molto amata per una mia personale interpretazione emotiva, lontana da quella ufficiale e 'sessuale', di cui probabilmente ci parlerai". Non è strana l'ammirazione di un massese per il Pascoli, dato che questi soggiornò a Massa tra il 1884 e il 1887 e lì insegnò presso il Liceo "Pellegrino Rossi" e le Scuole Tecniche Comunali, proveniente da Matera e prima di passare a Livorno. 

Si diceva delle difficoltà del Pascoli negli approcci con le donne (le poche fidanzate furono fatte fuggire a gambe levate da Maria, la signorina nella foto qui accanto). Nell'interessante biografia del poeta di S.Mauro di Romagna scritta da Gian Luigi Ruggio (uno studioso che ho conosciuto di persona), conservatore di Casa Pascoli a Castelvecchio di Barga e intitolata appunto "Giovanni Pascoli" (Simonelli Editore), si spiegano i retroscena che portarono alla composizione della poesia. Il Pascoli, che non ebbe mai una relazione vera e duratura con una donna, soffriva molto del fatto di poter solo assistere dall'esterno, da escluso, ai misteri e alla magia dell'amore sensuale. "Il gelsomino notturno" fu scritto in occasione delle nozze di un giovane bibliotecario di Lucca che aiutava il Pascoli nelle traduzioni dall'inglese, Gabriele Briganti. 

I due erano molto amici, e il Briganti fu commosso dall'omaggio che il poeta gli fece di una sua opera, e poi di un'opera di quel livello. Per questo motivo, partendo per il viaggio di nozze, volle fermarsi a Castelvecchio a salutare il Pascoli. Arrivò in carrozza con la sposina, e fece mandare un biglietto al poeta in cui invitava lui e sua sorella Mariù a mangiare trote in un ristorante lì vicino. Il Pascoli si fece negare. Anzi, scrisse poi a un altro amico: "Io e Mariù amiamo mangiare trote con gli scapoli, o almeno con i maritati che non siano in viaggio di nozze". Perché un simile comportamento verso un amico? Ecco come lo spiega il Ruggio: "Privato, non si sa se volontariamente o meno, di un rapporto adulto con la donna, il suo comportamento nei confronti di chi tale rapporto lo raggiungeva, assumeva spesso aspetto nevrotici. Così, all'arrivo degli sposi novelli, fece dire che non c'era: invidia, stizza, insofferenza prevalsero anche nei confronti di una cara amicizia".

"Il gelsomino notturno" fu scritta il 21 luglio 1901 e venne inserita nella prima edizione dei Canti di Castelvecchio (1903). Il perché del titolo e della scelta del fiore è subito chiaro: alcune piante aprono i loro calici ed esalano i loro profumi al sorgere della luna per attirare gli insetti notturni. Il richiamo che si spande nell'aria al calare delle tenebre è quello del sesso. L'abbinamento fra il buio e il desiderio sensuale sottolinea l'alone di mistero che, per il Pascoli (ma anche per noi), hanno le pratiche erotiche (intese in senso lato, non soltanto fisico). Quando la poesia comincia, è notte. La notte degli amanti. Mentre il poeta è prigioniero dei suoi ricordi e dei suoi drammi che gli impediscono di vivere, inibendolo soprattutto nella sfera sessuale, per gli altri è il momento dell'amore. L'odore di fragole rosse, l'odore del sesso, che il vento gli porta, è il segno che altrove, nel mondo, nasce l'erba sopra le fosse dei morti, che la vita continua. Lui invece non è in grado di staccarsi dalle sue tombe, dai suoi fantasmi, e può solo osservare dall'esterno, percepire il mistero e la magia dell'amore senza esserne partecipe. 

E s'aprono i fiori notturni,
nell'ora che penso ai miei cari.
Sono apparse in mezzo ai viburni
le farfalle crepuscolari. 

Da un pezzo si tacquero i gridi:
là sola una casa bisbiglia.
Sotto l'ali dormono i nidi,
come gli occhi sotto le ciglia. 

Nella terza quartina, ecco l'odore di fragole rosse (quasi una sinestesia: un odore che sembra rosso), ecco un lume spiato dall'esterno, ecco l'erba che nasce sopra le fosse, appunto il segno del sesso che perpetua la vita, che è la vita (di cui anche la luce nella sala vista in una casa vicina è simbolo). 

Dai calici aperti s'esala
l'odore di fragole rosse.
Splende un lume là nella sala.
Nasce l'erba sopra le fosse. 

Un'ape tardiva sussurra
trovando già prese le celle.
La Chioccetta per l'aia azzurra
va col suo pigolio di stelle. 

La Chioccetta è il nome popolare della costellazione delle Pleiadi, e dunque l'aia azzurra è il cielo notturno. Non potendo partecipare al mistero a cui gli altri sono invece stati iniziati, il Pascoli metaforicamente spia gli altri dall'esterno: guarda la luce accesa che brilla nella finestra di una casa la cui sagoma si staglia nel buio, vede il lume salire al primo piano, là dove c'à la camera da letto. La lampada di spegne. Che succede, nel letto degli amanti? Il Pascoli si sente come un'ape che, tornando tardi all'alveare, trova già occupate tutte le celle: per lui, non c'è posto. Nella casa, invece qualcuno bisbiglia parole d'amore che il Pascoli sente come sussurro, come se si sforzasse di origliare senza davvero intendere. 

Per tutta la notte s'esala
l'odore che passa col vento.
Passa un lume su per la scala;
brilla al primo piano: s'è spento... 

All'alba, quando la notte d'amore è trascorsa, il Pascoli pensa al sesso femminile, proprio all'interno del corpo di donna, al luogo più intimo, più umido, più caldo. E' un' "urna molle e segreta". E' là dove il compagno ha depositato il suo seme. In quel luogo, la vagina (l'utero?), forse nascerà una nuova vita (un bambino), forse no, di sicuro nasce la felicità, un "non so che" magico e indefinito che il Pascoli non conosce, e che solo l'unione di due corpi, di uomo e di donna, può dare. E' molto struggente quel "non so che", detto da chi non ebbe mai una compagna nella vita. 

E' l'alba: si chiudono i petali
un poco gualciti; si cova,
dentro l'urna molle e segreta,
non so che felicità nuova. 

La foto qua accanto mostra la "rosa" di Robert Gligorov. Il fotomontaggio dà l'idea dell' "urna molle e segreta" e il rosso ricorda l'odore che ne esala: l'ho sempre trovata abbinabile alla poesia del Pascoli, anche se non è un gelsomino.

Analizzando il testo, è inevitabile da ultimo approfondirne, sia pure in breve, la raffinatezza metrica. Il Pascoli sembra un poeta facile e semplice ma poi dentro le sue poesie ci trovi di tutto. Per convincersene, basterebbe far caso alla musicalità degli accenti nel "Gelsomino notturno". La poesia italiana, in generale, a differenza di quella latina, si basa sul numero delle sillabe e non sulla durata (lunga/breve) delle vocali, e quanto agli accenti conta soltanto l'ultimo, che stabilisce se si tratta di, per esempio, settenari o di endecasillabi. Tuttavia, il Pascoli lavora sul ritmo degli accenti come un poeta dell'antichità. Leggiamo i primi due versi del "Gelsomino" facendo caso a dove cadono gli accenti principali: 

E s'àprono i fiòri nottùrni,
nell'òra che pènso ai miei càri. 

E' facile vedere che in tutti e due i versi sono accentate le sillabe 2, 5 e 8.Lo schema è questo: (- /+ - - /+ - - /+ -), dove il segno più indica gli accenti.La barra separa i piedi, evidenziando due dattili (accentata, atona, atona) e un trocheo (accentata, atona). 

Vediamo ora i secondi due versi: 

Sòno appàrse in mèzzo ai vibùrni
lé farfàlle crépuscolàri. 

Qui gli accenti principali cadono, in entrambi i casi, sulle sillabe 1, 3, 5, 8.Lo schema è questo: (+ -/+ -/+ -/ - /+ -). Qui ci sono quattro trochei (accentata, atona). Il primo andamento si dice giambico (dal "giambo" latino, composto da una sillaba atona e una accentata), il secondo si dice anapestico (dall'"anapesto" latino, composto da due sillabe atone e una accentata). Infatti, il ritmo è ascendente nella prima coppia di versi e di discendente nella seconda. Oppure, si potrebbe parlare di novenari dattilici nei primi due casi, o trocaici nei secondi due. Basta provare a ritmare gli accenti. Questo meccanismo si ripete in tutta la poesia: le rime si combinano in modo alternato, gli accenti procedono in versi accoppiati. Risultato: una struttura complessa che produce però una assoluta armonia.

che dire allora dell'ultima quartina proprio del "Gelsomino"?

E' l'alba: si chiudono i petali
un poco gualciti; si cova,
dentro l'urna molle e segreta,
non so che felicità nuova.


Com'è possibile che "petali" faccia rima con "segreta"? Possibiissimo considerando che pètali è una parola sdrucciola e il verso solo apparentemente ipermetro (un novenario di dieci sillabe): la sillaba in più non conta ai fini del computo, dato che il novenario è un verso che ha l'ultimo accento in ottava serie, dunque la rima di "segreta" è con "peta", senza contare il "li". Stupefacente.


lunedì 22 febbraio 2016

LA DONNA NELLA VITA E NELL'OPERA DI EMILIO SALGARI



LA DONNA NELLA VITA E NELL'OPERA DI EMILIO SALGARI
a cura di Silvino Gonzato
Assessorato Pari Opportunità del comune di Verona 
e Associazione culturale Vivi la Valpolicella
2011, cartonato,
60 pagine, p.n.i.

Si tratta degli atti di un convegno tenutosi a Verona il 22 ottobre 2010 nell'approssimarsi del centenario della morte del "padre degli eroi", Salgari appunto. Il volume è un cartonato formato A4 di 60 pagine stampare su carta patinata e contiene sei interessanti saggi. Il primo, di Roberto Fioraso, si intitola "Il tenue erotismo salgariano da Tay-See a Capitan Tempesta": a leggere le citazioni, tanto tenue questo erotismo non sembra e, anzi, ci si può trovare dell'audacia: "Il sangue gli correva più rapido a quel contatto, si sentiva prendere da ardenti bramosie e le sue dita accarezzavano avidamente quelle tiepide carni frementi d'amore e di ansietà", si legge ne "La Rosa del Dong-Giang". Segue un atrticolo di Felice Pozzo sul tema delle donna (reali) nella vita di Emilio, a partire dalle sue tecniche di seduzione nei confronti della moglie Ida, ricavate dalle sue lettere. Quindi Vittorio Sarti esamina la figura femminile come emerge nei romanzi salgariani e nota i suoi accenti di promotore dell'emancipazione della donna (Capitan Tempesta, basterà ricordarlo, era appunto un'eroina e non un eroe). Seguono le "Considerazioni di un editore donna su Salgari", di Franca Viglongo, che si sofferma a notare, estrapolando le sue considerazioni dalle cronache dei funerali dello scrittore, quanto fosse significativa la presenza femminile fra i lettori salgariani. Per finire, con "Il romanziere e il suo tempo", Gian Paolo Marchi studia i rapporti di Salgari con gli altri scrittori della sua epoca. Chiude il volume il testo di una introduzione a una edizione portoghese di "Attraverso l'Atlantico in Pallone". Per i cultori del "capitano", tanta roba bella (con il corredo di alcune illustrazioni a colori).

domenica 21 febbraio 2016

NOVECENTO



Alessandro Baricco
NOVECENTO
Feltrinelli
Collana Universale Economica
Trentunesima edizione febbraio 2000
brossurato 
70  pagine -  lire 7.000

Un monologo teatrale che funziona benissimo anche come romanzo, e che comunque ha ispirato un film molto spettacolare, pur essendo, in fondo, un qualcosa che inizialmente prevede solo la presenza scenica di un attore se non, addirittura, di una sola voce recitante. Sotto qualunque veste, comunque sia, il racconto funziona perché è una bella storia, e c’è alla base una bella idea. “Ho scritto questo testo per un attore, Eugenio Allegri, e un regista, Gabriele Vacis. Loro ne hanno fatto uno spettacolo. Non so se questo sia sufficiente per dire che ho scritto un testo teatrale: ma ne dubito. Adesso che lo vedo sottoforma di libro – scrive Baricco nella prefazione – mi sembra piuttosto un testo che sta in bilico tra una vera messa in scena e un racconto da leggere ad alta voce. Non credo che ci sia un nome, per testi del genere. Comunque, poco importa. A me sembra una bella storia, che valeva la pena di raccontare. E mi piace pensare che qualcuno la leggerà”. Sul piroscafo “Virginian”, che fa la spola tra l’Europa e l’America negli anni fra le due guerre, qualcuno abbandona un neonato che viene trovato e adottato dall’equipaggio. Viene chiamato Danny Boodman, dal nome del marinaio che se l’era preso a cuore, e TD Lemon Novecento per sovrappiù. Novecento cresce sulla nave, e finisce per non scenderne più. Impara a suonare il pianoforte e diventa un pianista straordinario, anche perché non c’è molto altro da imparare. In ogni caso, finisce per sapere tutto del mondo, ascoltando i racconti dei passeggeri, ma non osa mai scendere a terra. Quando alla fine il transatlantico viene fatto esplodere perché deve essere smantellato, Novecento muore con lui. Al di là della bellezza del racconto, nell’alternarsi di prosa e poesia, di poesia raccontata e di prosa poetica, chiara è la metafora di Novecento che incarna la condizione di tutti coloro che non osano scendere e posare i piedi su un mondo troppo grande che li intimorisce, e finiscono per vedere la realtà solo attraverso i racconti degli altri, gente comunque che a un certo punto se ne va, lasciandoli lì, impossibilitati a costruire rapporti veri. buoni solo a improvvisare concerti e sonate seducenti, che nessuno sentirà più perché non lasciano tracce.

venerdì 19 febbraio 2016

RASSEGNA STANPA



RASSEGNA STANPA
di Federico Sardelli
Edizioni de Il Vernacoliere
2012, cartonato
120 pagine

Del genio comico grafico e letterario di Federico Sardelli e del suo multiforme ingegno che lo porta a primeggiare anche come serissimo direttore d'orchestra a livello internazionale, ho scritto molte volte. Di recente, ho recensito qui le sue "Proesie". Se non l'avete già fatto, procuratevi i libri del "Vernacoliere" che raccolgono i suoi "Miracoli di Padre Pio", le sue "Più belle cartoline dal mondo", i suoi racconti del libro "Cuore" e tutte le altre antologie destinate a tramandare ai posteri le esilaranti facezie che da anni pubblica sul mensile satirico livornese. Questo nuovo libro (120 pagine di grande formato, cartonato, tutto a colori) raccoglie le prime pagine della sua "Rassegna StaNpa" (il refuso è, evidentemente, voluto) che prende clamorosamente in giro alcuni quotidiani, dal Sole 24 Ore a l'Avvenire, con particolare accanimento nei confronti de "La Nazione", de "L'Osservatore Romano" e de "Il Giornale" (la labrionicità dell'autore non si smentisce, insomma). Le testate vengono storpiate di volta involta in "La Razione (di cazzate quotidiane)", "Il Gi-Orinale", "L'Oscuratore Romano". I titoli sono esilaranti, anticlericali e politicamente scorretti, i falsi articoli (tutti leggibili) ancora di più. Divertente da mozzare il respiro dal gran ridere.

lunedì 15 febbraio 2016

INFERNO





INFERNO
di Dan Brown
Mondadori
2013, cartonato, 
530 pagine 

Ci sono pro e contro di cui tener conto. Cominciamo dai pro. Come quasi tutti i romanzi di Dan Brown, la lettura è avvincente. Ogni capitolo lascia con la voglia di andare avanti e a un certo punto il racconto si fa ipnotico, non si riesce a smettere di leggere. Il set principale è Firenze, e chi la conosce (come credo di poter dire di conoscerla io) ritrova effettivamente strade, palazzi, modi di dire e di fare. Il che testimonia una notevole documentazione e, probabilmente, ripetute visite dell'autore sui luoghi da lui descritti. In più, a ogni piè sospinto si scoprono curiosità e aneddoti poco conosciuti che invogliano ad andare a visitare la città. Lo stesso vale per le altre due mete del peregrinare di Robert Langdon: Venezia e Istanbul. I colpi di scena non mancano, e fino alla fine si viene ingannati perché niente o quasi è come sembra. Il romanzo, inoltre, è pieno d'azione, non ci sono momenti di stanca o punti morti, il ritmo è serrato e rocambolesco. Infine, la tematica di fondo che sostiene la trama è il problema della sovrappopolazione del pianeta, che rischia di portare al collasso il genere umano: un argomento intrigante. Passiamo ai punti negativi: la scrittura di Dan Brown è prossima al grado zero della letterarietà. Lineare, chiara, semplice, efficace, dunque funzionale alla comunicazione immediata, ma dal punto di vista stilistico, dell'approfondimento psicologico o dell'intento descrittivo filtrato da un approccio artistico, non c'è trippa per gatti. Il che potrebbe anche non essere un difetto, se non si cerca niente di più che un blando intrattenimento. Altro problema: siamo alle solite, Langdon ha sempre a che fare, come già nel "Codice Da Vinci", con qualcuno che lo vuole acchiappare e lui fugge da un posto a un altro svelando degli enigmi come in una caccia al tesoro. Ci sono sempre degli indovinelli da risolvere mentre dei cattivi, o presunti tali, gli sono alle calcagna e talvolta gli sparano addosso. Troppa ripetitività, troppi deja vu in questo schema. Che poi, nel caso di "Inferno", non si capisce neppure bene perché mai il biologo Bertrand Zobrist abbia dovuto lasciare tutti quegli enigmi da risolvere, invece di mettere semplicemente in atto il suo piano o, al limite, lasciando un solo messaggio in codice. Per avviarci a finire, nello sforzo di sorprendere come il prestigiatore che mescola le carte, Dan Brown finisce per deludere perché la spiegazione che fa capire come ci fossimo ingannati è, spesso, qualcosa di minimale o di involontariamente umoristico. Se crediamo per tutto il libro che ci sia un personaggio colpito dalla peste bubbonica e poi scopriamo che ha soltanto una dermatite di origine allergica, è chiaro che siamo sorpresi, sì, ma anche un po' perplessi, come quelli che chissà che avevano pensato e invece tutto si risolve in una cosetta di poco conto. Circa il finale, in realtà la vicenda non si risolve e l'eventuale soluzione si dà per rimandata: chi voleva cambiare la storia l'ha cambiata davvero, e Dan Brown sembra fare il tifo per lui (senza avere tutti i torti, peraltro). Ciò detto, decidete da soli se questa recensione è positiva o negativa.

venerdì 12 febbraio 2016

I QUADERNI SEGRETI DI AGATHA CHRISTIE






John Curran
I QUADERNI SEGRETI  DI AGATHA CHRISTIE
Oscar Mondadori
2010, brossurato
400 pagine, 13 euro

Una decina di anni fa sono stati ritrovati, in una scatolone nella casa della scrittrice, 73 quaderni contenente frettolosi appunti scritti a mano dalla Christie nel corso di oltre cinquant'anni. Della loro esistenza si sapeva perché la giallista ne aveva parlato nella sua autobiografia, raccontando di averli usati fin dai tempi del primo romanzo per prendere nota delle sue idee, ma di avere anche il difetto di perderli continuamente. Li perdeva e li ritrovava, visto che ogni quaderno contiene appunti riferibili a libri diversi e di epoche diverse, in un calderone inestricabile di scarabocchi di ogni tipo, dall'elenco per i regali di natale ai tentativi di risolvere delle parole incrociate. John Curran, un christologo di prim'ordine, si è preso la briga di decifrare uno per uno tutti i quaderni, convincendosi che sono pochi quelli ad essere stati definitivamente smarriti e assemblando gli appunti sparsi in capitoli riferibili a un periodo o a un romanzo preciso, e commentando ogni annotazione con acume e perspicacia, in modo da svelare in modo brillante il modo di lavorare di lady Agatha. Vedere come la scrittrice ragionava sulle sue trame e cercava di trovare il modo giusto per ingannare i suoi lettori è elettrizzante. Si fanno anche delle scoperte interessanti: per esempio, i personaggi di "Dieci piccoli indiani" all'inizio dovevano essere dodici, "Poirot sul Nilo" avrebbe dovuto essere un romanzo di Miss Marple, il finale di "C'era una volta" originariamente era diverso, per quello di "E' un problema" erano state valutate più soluzioni, e via dicendo. Su Agatha Christie io ho scritto un fumetto, illustrato da James Hogg, pubblicato su "Il giornale dei misteri": ma ogni mio "giallo" zagoriano è costruito secondo gli schemi della magistrale Agatha. Questo libro, è consigliato a tutti coloro che, come me, la adorano.

giovedì 4 febbraio 2016

TEX SECONDO LETTERI




Sto portando avanti, da alcuni mesi, una serie di incontri nelle librerie italiane intitolate “Moreno Burattini presenta quattro libri”. Ho cominciato con due date a Milano (una, peraltro, presso il Megastore Mondadori di Via Marghera), per proseguire poi con Firenze, Bologna e Viareggio, mentre sono in programma eventi a Prato e Pistoia (in attesa di altre presentazioni in primavera). Uno dei quattro titoli che sottopongo all’attenzione del pubblico tra una facezia e l’altra tratta dai miei “Utili Sputi di Riflessione”, è il saggio scritto con Stefano Priarone “Tex secondo Letteri”, edito da Allagalla. 


Di Guglielmo Letteri, io e Stefano ci eravamo già occupati nel 1998 compilando i testi del catalogo di una importante mostra organizzata a Lucca da Antonio Vianovi. All’epoca, il disegnatore era ancora vivo (lo sarebbe rimasto fino al 2006) e ebbi modo di incontrarlo, fargli una lunga intervista, conoscerlo bene e ricevere da lui attestati di stima e di simpatia prima, durante e dopo la preparazione del libro, intitolato "Guglielmo Letteri & Tex - Omaggio a un Maestro dell'Avventura".



Nell’avvicinarsi del decimo anniversario della scomparsa del disegnatore, io e Priarone abbiamo proposto ad Allagalla di affiancare al saggio di Roberto Guarino sull’opera nizziana, “Tex secondo Nizzi”, un altro titolo che avrebbe potuto dare il via a una vera e propria collana dedicata ai principali autori di Aquila della Notte, appunto “Tex secondo Letteri”. L’idea era quella di riprendere in mano il testo del vecchio catalogo, allungandolo con nuove notizie e ampi approfondimenti, tenendo conto anche delle opere che il disegnatore romano aveva realizzato tra il 1998 e il 2006. Alla fine il testo proposto è risultato lungo il doppio del precedente da cui eravamo partiti. 

Allagalla non soltanto ha fatto un gran lavoro grafico corredando il saggio con un gran numero di immagini (comprese alcune rare foto), ma anche ottenuto di poter pubblicare in appendice due storie a fumetti che precedono l’arrivo di Letteri a Tex mostrando però la maturità già raggiunta dal suo tratto, quella che gli valse l’arruolamento nella squadra da parte di Giovanni Luigi Bonelli e di suo figlio Sergio. 

Giovanni Luigi Bonelli, peraltro, autore di uno di questi due racconti: “Rick Master”, pubblicato a suo tempo su un volume datato 1968 della “Collana Rodeo” ma risalente ad alcuni anni prima.  L’altro racconto è un episodio di Pecos Bill del 1963, uno dei cinque realizzati per questo personaggio da Letteri, appena rientrato dall’Argentina dove aveva lavorato con Pratt e il gruppo dell’Asso di Picche. Il volume è stato presentato a Lucca Comics 2015.

Nel dividerci e ruoli, io e Priarone abbiamo scelto di mantenere separati i nostri rispettivi contributi: mie sono la ricostruzione storico-biografica e l’analisi dell’evoluzione stilistica del disegnatore, di Stefano è la disamina puntuale di ogni singola storia texiana di Letteri. Mio il merito del sottotitolo  di cui vado orgoglioso: "Donne, magia e polvere da sparo". 

Sono molte, credo, le cose poco note riguardanti Letteri di cui si parla nel nostro libro, a cominciare dal suo talento di chitarrista jazz (era così bravo che avrebbe potuto percorrere una carriera del tutto diversa e di grande successo, ad altissimi livelli, anche in campo musicale), ma anche sui suoi anni argentini o sull'attività di un fratello, Giorgio, anche lui disegnatore molto attivo sul mercato inglese ma pochissimo pubblicato in  Italia. 

Hugo Pratt, Guglielmo Letteri e Ivo Pavone

Mi rendo conto, proseguendo la mia attività di saggista, di stare via via pagando alcuni debiti accumulati durante la mia infanzia: ho infatti scritto le biografie di Gallieno Ferri, Giovanni Ticci, Guido Nolitta e adesso Guglielmo Letteri, cioè di quattro autori che hanno segnato la mia vita. Spero di poter continuare perché la lista dei creditori è lunga. Qui di seguito troverete una delle due prefazioni del volume, quella firmata da Mauro Boselli (l’altra, altrettanto interessante, è di Claudio Nizzi): la pubblico perché dice un bel po’ di cose che mi sento di sottoscrivere. 




IL MIO DISEGNATORE PREFERITO
di Mauro Boselli

Mitla, il Diablero, Lucero, Esmeralda, El Morisco: bellissime donne, nemici tenebrosi, preziosi alleati di Tex... sono soltanto alcuni dei personaggi che mi vengono subito in mente quando penso all’eredità lasciataci da Guglielmo Letteri. Ho cominciato a leggere le avventure di Aquila della Notte alla fine degli anni Cinquanta, ancora prima di varcare la soglia della scuola elementare. Come si sa, a quell’epoca sugli albi a striscia c’era solo il segno inimitabile di Galep, che veniva coadiuvato talvolta dalle matite (ora più spigolose, ora più tondeggianti) di altri collaboratori che in seguito avrei imparato a identificare come Muzzi, Uggeri o Gamba, di cui già allora ero comunque in grado di distinguere gli interventi. Fu grande la mia sorpresa quando, poco tempo dopo, mi accorsi di una nuova mano, quella dell’autore di una meravigliosa storia ambientata a San Francisco, sulla Costa dei Barbari, tra squali e barracuda. Il suo tratto, per me, era fluido, evocativo e trascinante al pari di quello del grande Aurelio Galleppini. Quella fu la prima storia di Letteri su cui avevo messo gli occhi e da quel momento il disegnatore romano divenne il mio artista di Tex preferito. Trovavo soprattutto insuperabile il suo Carson, grazie a quella straordinaria espressività di cui Guglielmo era capace di dotarlo, con mimiche facciali ora ironiche ora burbere, ma sempre irresistibilmente simpatiche, durante i battibecchi con il pard, quando, durante una cavalcata, un bivacco o dopo un imprevisto bagno in un fiume, i due amici si concedevano (e concedevano a noi entusiasti lettori) quelle pause di vita vissuta e di dialoghi spumeggianti in cui Gianluigi Bonelli era maestro. Letteri mi sembrava il perfetto interprete dell’immaginario fantastico bonelliano, tant’è vero che tutti gli riconoscono un particolare talento nel rendere al meglio le atmosfere e le situazioni  magiche e misteriose, tenendole tuttavia ancorate a un sano e robusto realismo: caratteristiche queste che si ritrovano entrambe nel suo personaggio più famoso, El Morisco, il saggio curandero esperto in ogni scienza occulta (di cui a lungo ebbe l’esclusiva). Quando finalmente coronai il mio sogno e divenni sceneggiatore di Tex, fu con grande gioia che ricevetti l’incarico di lavorare con il disegnatore preferito della mia giovinezza. Non fu cosa facile, perché Guglielmo non aveva, notoriamente, un carattere semplice e spesso ricevevo da lui lunghe lettere scritte a mano in cui senza mezzi termini mi rimproverava per aver scritto una scena troppo complicata. Una volta storse il naso di fronte alla mia scelta di far cenare Carson in un ristorante di pesce di New Orleans, perché avrebbe dovuto disegnare troppe posate accanto al piatto! Naturalmente scrissi per lui alcune storie magiche e fantastiche e insieme inventammo un passato per El Morisco. Spero dunque di aver contribuito nel mio piccolo ad allargare ancora di più il lascito di emozioni che il grande Guglielmo Letteri ha lasciato in tutti noi.