venerdì 27 maggio 2016

IL PATIBOLO



IL PATIBOLO
di Dario Papa
Perosini
1994

Si tratta di un agile libretto (settanta pagine) che fa parte della collana "Avventure", diretta da Claudio Gallo, il massimo esperto vivente sulla vita e l'opera di Emilio Salgari. E in effetti un collegamento fra Dario Papa (l'autore del testo) e il creatore del Corsaro Nero, c'è: veronesi entrambi, furono scrittori contemporanei (Papa muore nel 1897, a cinquantun anni), ed ebbero tutti e due una carriera giornalistica, lavorando per qualche tempi al quotidiano "L'Arena". Giornalista, Dario Papa lo restò tutta la vita. E che giornalista, a dar retta non soltanto a quel che dicono di lui l'autrice della prefazione (Lucia Annunziata) e i due postfattori (Antonio Marchesi e lo stesso Claudio Gallo), ma anche alle impressioni che si ricavano dalla lettura dei due suoi testi presentati nel volumetto. Si tratta di un paio di interessanti estratti tratti da un'opera più ampia, "New York", datata 1884, che ho letto (lo confesso) nel mio lavoro di preparazione per una storia di Zagor con lo stesso titolo, dato che si descrivono le famigerate "Tombs", ovvero la prigione newyorkese, non lontana dai Five Points, dove si eseguivano le condanne a morte. E proprio di due processi e due esecuzioni si racconta. Papa, nel suo avventuroso viaggio negli Stati Uniti per scopi giornalistici (attraversò tutta l'America de Nord coast-to-coast) descrive il Paese che visita con acutezza critica e non come un turista in gita di piacere. E' critico e perfino severo, anche se poi fu conquistato dall' american way of life e da fervente monarchico (com'era anche Salgari) divenne repubblicano e federalista. "Il patibolo" descrive però la giustizia com'è amministrata (in modo che a lui pare sommario) a New York. E lo fa con asprezza, sembrandogli che agli imputati, soprattutto se poveri e immigrati, non venisse garantito il diritto di difesa (ovvero: che ci fosse un preponderante vantaggio per l'accusa). Singolarmente, Papa contesta l'invadenza della stampa che, a suo dire, faceva i processi in piazza prima ancora dello svolgimento in aula. Scrive il giornalista: "Qualcuno si chiederà come mai i giornali sapessero tante cose. Gli è che negli Stati Uniti essi passano dappertutto con una facilità straordinaria. Certissimamente là i giudici devono avere delle idee molto diverse da quelle dei nostri anche in fatto di preparazione dei processi: perché mentre da noi i giornalisti trovano le porte chiuse, non foss'altro per la ragione che non si vuole intralciare il processo, mettere la gente sull'avviso, frastornare misure che si son prese, là si può ben dire che i giornalisti istruiscono il processo prima ancora che chi ci ha il dovere". Sconvolgenti e terribili i passaggi in cui Papa descrive una impiccagione per cui ha ottenuto un invito, appunto allo scopo di documentarla: "Vidi ciò che di più orribile io abbia veduto mai. A due metri dal suolo, il condannato si agitava nelle più violente convulsioni". A corredo del testo, e anche a commento di queste parole, alcune belle illustrazioni di Paolo Bacilieri.

giovedì 26 maggio 2016

CUORE DI MAMMA



CUORE DI MAMMA
di Rosa Matteucci
Adelphi
2006, brossurato
140 pagine, 10 euro

Romanzo vincitore del Premio Grinzate Cavour 2007, è il terzo libro di Rosa Matteucci (Orvieto, 1960). Nel 1998 la scrittrice aveva vinto il Premio Bagutta con "Lourdes". Con stile ipnotico e coinvolgente, fatto di periodi lunghissimi ma perfettamente articolati e in grado di fotografare la realtà di una scena che scorre vivida davanti ai nostri occhi come in un piano sequenza, la Matteucci racconta il dramma (comune e quotidiano) di Luce, donna quarantenne da poco divorziata, fortunatamente senza figli ma con l'incubo di una madre anziana da accudire. Dopo una settimana di lavoro in banca, Luce deve lasciare la città per raggiungere il paesello dove, nella vecchia casa di famiglia, la mamma Ada va accudita perché non è più in grado di bastare a se stessa, ma non vuole mettersi in casa una badante (e non è detto che una badante voglia prendersi cura di un soggetto così difficile da gestire, anche caratterialmente). Luce si rende conto che trascorrere i weekend dalla madre significa rinunciare a nuove relazioni sentimentali che possano rimetterla in gioco e dare un senso alla sua vita, e finisce per detestare sempre più quei viaggi e le manie della genitrice. Il doversi prendere cura di lei si è trasformato in una sorta di discesa negli inferi. Però, proprio nel paesello, ecco che a Luce sembra di scorgere dell'interesse da parte di un vecchio compagno delle elementari, anche lui separato, Gianluca. Nella donna si riaccende una speranza, quella di recuperare gioie credute perdute per sempre. Sennonché Gianluca, lo scoprirà con delusione, non la cerca per amore o almeno attrazione, ma perché lei è in grado, come vicedirettrice di banca, di aiutarlo con i debiti che ha accumulato. E intanto, Ada finisce inferma in ospedale. La vita di Luce sembra andare a rotoli. Ma è l'incontro con un fornaio, e ciò che l'uomo le dice sulle difficoltà che tutti devono affrontare nella vita (alcune molto più dure di quelle provocate da una vecchia madre malata e fuori di testa), ad aprire gli occhi della protagonista: "sopporterà ogni prova e se cadrà si rialzerà, ora e sempre", sono le ultime parole del romanzo.

domenica 22 maggio 2016

LA VERA STORIA DEL PIRATA LONG JOHN SILVER



LA VERA STORIA DEL PIRATA LONG JOHN SILVER
di Björn Larsson
Iperborea
1998, cartonato
500 pagine

Che dire, se non "straordinario"? La recensione potrebbe finire qui, con un invito (nel vostro interesse) a procurarvi il libro e leggerlo prima possibile. Ma, per dovere di curatore di un blog letterario, ecco qualche annotazione in più. Scritta nel 1995 a bordo di una barca a vela (la "Rustica") da un docente universitario svedese (titolare di una cattedra in letteratura francese) che trascorre in mare tutto il tempo che può, "La vera storia del pirata Long John Silver" è una scommessa azzardata perfettamente vinta. 
L'idea che sostiene il romanzo è audace e intrigante: far raccontare in prima persona a Long John Silver la propria vita (in pratica, pubblicare la sua autobiografia) come se il pirata senza una gamba protagonista de "L'isola del tesoro" fosse davvero esistito. Del resto, lo stesso capolavoro di Robert Louis Stevenson è scritto in prima persona da Jim Hawkins, il mozzo dell'"Hispaniola", e dunque Larsson può compiere la stessa operazione facendo redigere a Silver la propria versione dei fatti. In realtà, ciò che è raccontato nel "Treasure Island" viene dato per scontato: Long John narra ciò che accaduto prima e che ciò che accade dopo. 
La difficoltà dell'operazione è duplice. Innanzitutto, bisognava ricostruire dei fatti che non contraddicessero in niente ciò che Stevenson riferisce del pirata. Dunque Silver doveva conoscere il latino e sostenere conversazioni colte, essersi sposato con una donna di colore di nome Dolores, aver perso una gamba, aver militato nelle ciurme di England (pirata realmente esistito) e di Flint (pirata inventato), dimostrarsi un valente marinaio nonostante la menomazione, manifestare talento e carisma da vendere senza essere mai diventato (o non aver mai voluto diventare) un capitano, non essere un ubriacone né uno scialacquatore di ricchezze (caso più unico che raro nella storia della pirateria), saper ingannare e dissimulare con estrema intelligenza, riuscire a manovrare gli uomini, farsi rispettare e incutere terrore ma non risultare un assassino sconsiderato, rispettare un proprio codice, avere il dono di cavarsela sempre e comunque, e via dicendo. In secondo luogo, a quale scrittore non sarebbero tremate le gambe dovendo reggere il confronto con Stevenson, nel maneggiare un personaggio del genere? 
Larsson riesce nell'impresa e ci consegna un Long John Silver memorabile, a cominciare dal linguaggio con cui si esprime: colto e tagliente, lucido e colorito, in grado di trasmetterci l'ansia di libertà, la voglia di vivere e sopravvivere e il leonino impeto di ribellione (contro le autorità e contro Dio) di un pirata consapevole (anche se non da subito, ma dopo un percorso di crescita) del significato delle sue azioni. Abile con la penna e con la spada, in grado di uccidere a mani nude e con l'inganno, assertore dell'uguaglianza degli uomini nel bene e nel male ma pronto a disprezzare moralisti, ottusi e stupidi, coraggioso e astuto in pari grado, Long John Silver è un assassino in grado di sedurci, esattamente come il pirata di Stevenson riesce a farsi perdonare da Jim Hawkins e a colpire al cuore i lettori dell' "Isola del Tesoro". Larsson, inoltre, rende credibile un pirata letterario: dopo aver studiato a fondo la storia della pirateria, imbastisce una trama che permette di avere un quadro coerente ed esaustivo della vita in mare a cavallo tra Seicento e Settecento, sconvolgendoci per le sofferenze degli equipaggi e la facilità con cui centinaia e centinaia di uomini morivano per le tempeste ma anche e soprattutto per le dure condizioni a bordo delle navi, vessati da comandanti crudeli e sottoposti a regole rigide e alla pena di morte per ogni nonnulla. Non c'è da meravigliarsi se in molti, attaccati dai pirati, passavano dalla parte degli assalitori. Pirati che crepavano come mosche a loro volta, in combattimento, impiccati dopo la cattura, per malattia o per il troppo bere (letteralmente affogati nel rum). 
Di ciò che racconta, Larsson sottolinea la verosimiglianza: giri di chiglia, esecuzioni capitali, ammutinamenti, torture, trasporto di schiavi, contrabbando, arruolamenti forzati, c'è di tutto, ed è tutta storia. Non a caso Long John incontra a Londra lo scrittore Daniel Defoe, impegnato a scrivere la sua monumentale "Storia generale dei pirati": è proprio Silver, spiega Larsson, a fornire all'autore di "Robinson Crusoe" le notizie sui "gentiluomini di ventura" a patto di essere lasciato fuori, di non comparire (nella speranza di evitare la forca il più a lungo possibile). Naturalmente viene svelato come Long John ha perso la gamba, perché venga soprannominato "Barbecue", come mai Flint abbia sepolto il suo tesoro (i pirati non erano usi a farlo), e quindi c'è la parte con Silver vecchio ritiratisi in Madagascar, dove però gli inglesi lo vanno a cercare con la tenacia di un branco di cani da caccia. Il finale lascia con il dubbio che Long John se la possa essere cavata ancora un'ultima volta, prendendo per il naso la marina britannica e tutti noi lettori.

venerdì 20 maggio 2016

L’ARPA D’ERBA



L’ARPA D’ERBA
di Truman Capote
Garzanti
Collana Gli Elefanti
1996, brossurato 
140 pagine -  lire 14.000

“Se, uscendo dalla città, imboccate la strada della chiesa, rasenterete di lì a poco una abbagliante collina di pietre candide come ossa e di scuri fiori riarsi: è il cimitero Battista. Vi sono sepolti i membri della nostra famiglia, i Talbo, i Fenwick. Mia madre riposa accanto a mio padre e le tombe dei parenti e degli affini, venti o più, sono disposte intorno a loro come radici prone di un albero di pietra. Sotto la collina si stende un campo di saggina, che muta di colore ad ogni stagione; andate a vederlo in autunno, nel tardo settembre, quando diventa rosso come il tramonto, mentre riflessi scarlatti simili a falò ondeggiano su di esso ed i venti dell’autunno battono sulle foglie secche evocando il sospiro di una musica umana di un’arpa di voci”. Comincia così quello che in quarta di copertina viene definito “il capolavoro di Capote”. E con le parole di una delle protagoniste, Dolly, si spiega: “Senti? E’ un’arpa d’erba, che racconta qualche storia. Conosce la storia di tutta la gente della collina, di tutta la gente che è vissuta, e quando saremo morti racconterà anche la nostra storia”. 
E’ un po’ tutto qui il senso del breve romanzo: un labile spunto narrativo serve da cornice perché l’io narrante, il giovane Truman, racconti, saltando da uno all’altro, episodi di vita vissuta in una noiosa cittadina della campagna americana negli anni fra le due guerre. Il romanzo stesso, insomma, è l’arpa d’erba che sa la storia di tutta la gente della collina, e ne narra qualcuna. Orfano di padre e di madre e affidato a due biscugine, vecchie zitelle, Truman vive nella loro casa finché Dolly, una delle sorelle, litiga con l’altra, Verena, e si ritira a vivere, per ripicca, su una vecchia capanna costruita su un albero chissà da chi e chissà quanto tempo prima. Truman la segue con la governante di colore, Catherine. Al terzetto si unisce poi qualcun altro bizzarro individuo, e i rifugiati sull’albero subiscono il ripetuto intervento delle autorità costituite che vogliono farli tornare a casa. Poi Dolly muore di morte naturale e insomma, per Truman i pochi giorni trascorsi nella capanna restano il ricordo di una avventura adolescenziale. Fine della trama. Il resto sono divagazioni, elzeviri ed esercizi di stile. La noiosa cittadina è davvero noiosa.  Capote, secondo la quarta di copertina, racconta “un destino che si compone di mille frammenti: realtà e sogni infantili, pettegolezzi e  crudeltà di paese, grandi amori e tragiche passioni”. I grandi amori e le tragiche passioni in realtà non le ho viste, il resto sì, ma va bene così. E’ insomma uno di quei libri che si leggono, evidentemente, per seguire il fluire della prosa dell’autore, più che perché intrigati dalla trama.

giovedì 19 maggio 2016

ASIMOV IN GIALLO



Sono due i romanzi di Isaac Asimov pubblicati nei Gialli Mondadori.  "Ma come? - qualcuno dirà - Asimov era  uno scrittore di fantascienza".  Senza dubbio, ma non solo. Quando è morto stava per terminare  il suo cinquecentesimo libro, intitolato appunto "Opus 500". E nella sua sterminata produzione c'è posto per un po' di tutto. Asimov  era anche un divulgatore scientifico, un umorista, un critico letterario, un narratore per ragazzi. E un giallista. Non basta: un giallista eccezionale. Non basta ancora: un cultore del genere. Faceva parte, infatti, degli "Irregolari di Baker Street", una associazione di appassionati ammiratori di Sherlock Holmes che prende il nome proprio da una banda di monelli  utilizzati da Arthur Conan Doyle come aiutanti del suo investigatore.   Non a caso Asimov ha curato un'antologia di racconti fantastici intitolata "Sherlock Holmes nel tempo e nello spazio" nel quale lo "spirito" di Holmes  si incarna in animali, robot, extraterrestri e così via. E non a caso Asimov ha curato anche (solo per fare un altro esempio) "Il delitto è servito", un'altra antologia  di racconti gialli di stampo più tradizionale tutti accomunati dal filo conduttore del veleno. Un tema chiaramente legato alla detective story più classica, quella in fondo che Asimov preferiva. Del resto, lui che ha coniato la parola "robotica" e ha dato alla voce "robot" l'accezione che tutti oggi conosciamo, non poteva che prediligere meccanismi gialli basati sulla deduzione, sul ragionamento, sulla logica: le doti, appunto, dei cervelli elettronici.

Nei suoi racconti e romanzi, Asimov ha sempre posto in secondo piano l'azione. Gli scontri, le battaglie, le lotte si svolgono in genere fuori scena o ne vengono fatti dei resoconti rapidi ed essenziali. Il grosso della trama si dipana attraverso conversazioni che esaminano la situazione da tutti i punti di vista, prospettando problemi e soluzioni, e solleticando in maniera vivacissima l'intelligenza del lettore. Si tratta di un modo di narrare molto cerebrale, eppure affascinante ed efficacissimo. Anche i gialli di Isaac Asimov hanno questa caratteristica: sono, tutto sommato, statici. Ma quanto sono intriganti! Il ciclo di racconti più famoso è senza dubbio quello del "Club dei Vedovi Neri", che conta una cinquantina di episodi. Tutti i racconti si svolgono nel medesimo luogo e hanno come protagonisti gli stessi personaggi, o quasi. Si tratta di una saletta riservata di un ristorante dove, una volta al mese, si riuniscono i sei membri di un club i cui soci, a turno, portano un ospite di volta in volta diverso. L'ospite ha sempre un mistero da cui è ossessionato e che vorrebbe risolvere. Ed è il settimo socio a risolverlo: si tratta di Henry, impareggiabile cameriere membro onorario del club, che serve la soluzione insieme al brandy. Una soluzione incontestabile, lineare,  tagliente come il filo della logica. I casi affrontati e risolti durante i banchetti dei "Vedovi Neri" riguardano molto di rado degli omicidi. Si incontrano spesso casi di spionaggio, di truffa, di furto; ma si tratta sempre, in realtà, solo di un pretesto per mettere alla prova le cellule grige di Henry e dei lettori. 

Qualcosa del genere avviene anche in un altra serie di racconti, quella degli "Enigmi dell'Union Club". Ogni racconto prende le mosse da una breve conversazione tra un gruppo di tre amici nella biblioteca di un club. Il quarto amico è un certo Grisword, che  all'inizio è sempre addormentato. Un brano della conversazione lo risveglia e gli ricorda un episodio che comincia a raccontare. Quindi si ferma di colpo, lasciando che i tre ascoltatori (e con loro, tutti i lettori) provino a immaginarsi il finale. Quando poi Grisword termina il suo racconto, nessuno (né gli amici del club, né i lettori) restano mai delusi. 

Torniamo ai due romanzi gialli veri e propri, quelli da cui siamo partiti, entrambi segnati  della sua personalissima impronta. Basti pensare che il più celebre, "Rompicapo in quattro giornate", si svolge durante un Salone del Libro dove si incontrano autori, editori e lettori:  lo stesso Asimov compare tra i personaggi, risultando uno dei possibili colpevoli di un intrigante delitto. L'altro romanzo, "Un soffio di morte", trae spunto dalla carriera di ricercatore e insegnante universitario dello scrittore: vittima, arma, assassino e movente sono originalissimi all'interno del panorama della classica detective story.


C'è di più. Dicevamo in apertura che Isaac Asimov è noto soprattutto per i suoi romanzi di fantascienza. Verissimo. Ha scritto decine  di racconti sui robot, ha ideato le fondamentali "Tre Leggi della Robotica". Ha creato uno sconfinato Impero Galattico e ha dato vita all' indimenticabile ciclo di "Fondazione". Ma c'è qualcos'altro che ha inventato: la fantascienza gialla.  Prima di lui, si riteneva impossibile una combinazione fra i due generi. Si diceva da più parti che per sua stessa natura un giallo fantascientifico non avrebbe potuto essere onesto con il lettore. Insomma, il timore era che uno Sherlock Holmes del futuro potesse  tirar fuori un aggeggio stranissimo e dire: "Come lei sa, Watson, il mio frannistan tascabile è  in grado di scoprire in un attimo il gioiello nascosto". Asimov era convinto del contrario. Per scrivere un giallo fantascientifico, spiegava "è sufficiente non mettere nuovi e strani aggeggi di fronte al lettore, e risolvere il giallo con lui. Basta non approfittare della storia futuribile al fine d'introdurre fenomeni ad hoc. Anzi, bisogna spiegare scrupolosamente fin dall'inizio tutti gli aspetti dell'ambientazione avveniristica in modo che il  lettore abbia una possibilità d'intravvedere la soluzione". L'investigatore del futuro, secondo Asimov, può essere onesto quanto quelli del passato e del presente se solo risolve il caso avvalendosi  unicamente dei fatti già spiegati e dunque noti al lettore. 

Ecco dunque tre eccezionali gialli con protagonista un detective umano, Eljia Baley, e il suo assistente robot Daneel Olivaw, ambienti in un futuro dove i terrestri sono considerati una razza inferiore rispetto agli altri uomini che vivono nelle colonie spaziali: nel primo, "Abissi d'acciaio", il delitto è stato compiuto sulla Terra; nel secondo, "Il sole nudo", il delitto è stato commesso su una colonia spaziale; nel terzo, "I robot dell'alba" ad essere stato ucciso è proprio un robot. Va detto che anche i romanzi del ciclo della Fondazione sono costellati di spunti gialli: per esempio, chi mai avrebbe sospettato della vera identità del terribile mutante "Mule"? O di chi fosse il Primo Oratore della Seconda Fondazione?

Ma ecco anche una lunga serie di racconti con un personaggio d'eccezione: l'"extraterrologo" Wendell Urth,  una sorta di Nero Wolfe del futuro, in realtà controfigura dello stesso Asimov: come il suo dottor Urth non si muove mai dal suo appartamento, allo stesso modo  il "buon dottore" (così Asimov era chiamato dagli ammiratori) non lasciava quasi mai la sua abitazione newyorkese. Il titolo dell'antologia che raccoglie i racconti con Wendell Urth protagonista è significativo: "Asimov's Mysteries". Vale a dire, I misteri di Asimov". Buona lettura, se volete mettervi alla caccia.

lunedì 16 maggio 2016

PINOCCHIO






PINOCCHIO
di Sandro Dossi e Alberico Motta
Cliquot
2016, 192 pagine

16 euro

Un benefico tuffo nella nostalgia. Nostalgia, beninteso, in senso positivo: recupero dei ricordi, ma anche rinnovarsi del sorriso. In più, mi sono accorto di come il Pinocchio dell'editore Renato Bianconi (figura storica del fumetto italiano, su cui si sentono raccontare gli aneddoti più incredibili e divertenti) sia perfettamente fruibile anche ai giorni nostri, proprio come il modello collodiano. A Collodi, del resto, Bianconi ha soltanto chiesto in prestito il personaggio, l'ambientazione e i personaggi comprimari: per il resto, il burattino disegnato da Sandro Dossi (e da altri, quali Tiberio Colantuoni) vive avventure a sé stanti. Non è dunque una trasposizione a fumetti del romanzo ma ne utilizza i protagonisti e l'universo narrativo per dar vita a storie del tutto nuove: naturalmente semplici e ilari come da tradizione bianconiana. La Casa editrice Cliquot, benemerita nel recupero di fumetti del passato, ha addirittura dato vira a una campagna di crowdfunding per riportare quel Pinocchio in libreria, in un elegante volume dedicato alle storie firmate dallo sceneggiatore Alberico Motta e dal disegnatore Sandro Dossi, un autore a cui si dovrebbe erigere un monumento. A queste, si aggiunge un ricco, esaustivo e interessante apparato critico firmato da Luca Boschi, Andrea Leggeri e Giuseppe Pollicelli. I saggi introduttivi ricostruiscono l'epoca dei fumetti Bianconi: Braccio di Ferro, Geppo, Nonna Abelarda, Soldino, Trottolino e tanti, tanti altri, realizzati in economia e in velocità, riciclati all'infinito, ma destinati a divertire per cinquant'anni i lettori più giovani ma anche i meno giovani. Una vera e propria "scuola" che ha brillato per garbo e qualità nonostante i ritmi di lavorazione. Luca Boschi ci consegna invece una disamina delle versioni a fumetti realizzato nel corso degli anni con protagonista il burattino di Collodi. Il Pinocchio bianconiano comparve in edicola tra il 1974 e il 1980, sull'onda del successo dello sceneggiato televisivo firmato da Luigi Comencini, dopo che si erano liberato i diritti del personaggio. E fa tanto, tanto piacere ritrovarlo adesso in una selezione delle sue avventure migliori.

domenica 15 maggio 2016

IL FARO



IL FARO
di Paco Roca
Tunué
2006 

Paco Roca è sicuramente un grandissimo narratore, nei testi e nei disegni, e chiudendo i suoi libri si resta poi come inebetiti a fissarne la copertina, colpiti, commossi, soddisfatti. Dopo "Rughe" e "L'inverno del disegnatore", "Il faro" è un altro capolavoro da non perdere. Benché ambientato in Spagna (il Paese dell'autore) durante la Guerra Civile del 1936-1939,  non è una storia di guerra. Anzi, è una storia della ricerca di una terra utopica in cui le guerre non ci sono. Il giovane Francisco Guirado, repubblicano, ferito e in fuga, cade in mare e viene salvato dal vecchio Telmo, guardiano di un faro da sempre affidato alla sua famiglia. Solo che il faro è spento perché la grande lampada è rotta, e Telmo è in attesa che le autorità gliene mandino una nuova. La guerra sembra aver bloccato tutto, ma l'uomo attende fiducioso e nell'attesa tiene il faro in perfetta efficienza. Non sembra essere schierato nel conflitto in corso: a Francisco che gli chiede se sia fascista, il vecchio indica l'orizzonte e replica: "Come disse il Capitano Nemo, il mare è il rifugio egli uomini liberi". Il ragazzo vorrebbe ripartire appena guarito, ma Telmo lo trattiene. Anzi, lo convince a costruire insieme a lui una barca per raggiungere un'isola che, a suo dire, sorgerebbe in mezzo al mare davanti alla costa, l'isola di Laputa, dove gli uomini sono saggi e illuminati e dove si può vivere in pace. Nel finale, Francisco scopre che non è Verne la sola lettura di Telmo, il quale si nutre di racconti di viaggi e di storie fantastiche, come quelle che gli narrano i resti dei naufragi che le onde depositano davanti al faro, da cui non si è mai mosso. E fra queste letture c'è anche "I viaggi di Gulliver", da cui l'isola di Laputa è tolta di peso. Inoltre, le lettere che il vecchio custodisce in un cassetto svelano anche che il faro è stato abbandonato e che non riceverò nessuna lampada, e anzi il guardiano, licenziato, viene invitato ad andarsene. Ma ecco l'irruzione dei soldati di Franco: il sacrificio di Telmo permette a Francisco la fuga sulla barca. C'è da notare che Paco Roca non ci consegna una storia in cui, come si si aspetta, i repubblicani sono tutti buoni e i franchisti tutti cattivi. Uno degli episodi mostra anzi la strage di una famiglia di innocenti, fucilata dai comunisti solo perché "qualunque persona avesse del denaro era considerata fascista". Sono cose come queste che spingono a cercare l'isola di Laputa, dovunque essa sia, in cerca di un mondo con meno orrori e più giustizia.

giovedì 5 maggio 2016

L'ARTE DI OTTENERE RAGIONE




Ci sono filosofi simpatici e filosofi antipatici. Socrate è simpatico. Platone, antipatico. Aristotele, simpatico. Plotino: antipatico. Sant’Agostino, antipatico. San Tommaso, simpatico. Hume: simpatico. Kant: antipatico. Hegel: antipatico. Schopenauer: simpatico. Ora, riuscire a spiegare perché quel vecchio misantropo di Arthur, peraltro tedesco e dunque con un pesante handicap di partenza in qualunque gara di simpatia, possa risultare anche solo moderatamente gradevole agli occhi di uno studente liceale, è difficile come cercare di leggere dall’inizio alla fine “Il mondo come volontà e rappresentazione”, la sua opera fondamentale datata 1819. Un’opera, va detto, che risultò così indigesta persino ai suoi contemporanei da far finire al macero quasi tutte le copie della prima edizione. Tuttavia, tra i pochi lettori di Schopenauer ci furono di sicuro Nietzche (antipatico) e Freud (simpatico) che rimasero fortemente influenzati dal pessimismo cosmico del filosofo di Danzica. 

Ovviamente, de “Il mondo come volontà e rappresentazione” ricordo solo quello che diceva il Bignami su cui mi preparavo per le interrogazioni al liceo, ma rammento che il succo del discorso mi piaceva: lo scopo della vita è soltanto vivere e pretendere che esista un senso ultimo non è che un tentativo di nasconderci questa amara verità. Poi c’è il discorso della “rappresentazione”: ogni fenomeno è pura illusione, che nasconde la realtà della cosa in sé. In pratica, il mondo è il “velo di Maya” predicato dal buddismo. Oppure, come oggi sono arrivati a stabilire i fisici quantistici, noi vediamo ciò che vediamo soltanto perché non riusciamo a vedere altro, ma il principio di indeterminazione di Heisenberg sgombra il campo dalla possibilità di comprendere davvero quel che ci succede attorno nel tempo e nello spazio. La realtà è un’onda di particelle che vibrano nell’ immenso vuoto subatomico e siamo noi che ce la rappresentiamo un po’ come ci pare. 

Ma il vero motivo per cui mi piace Schopenauer è per il suo strabiliante senso della logica, che sento vicino (pur nella pochezza dei miei mezzi intellettuali rispetto ai suoi) anche al mio modo di ragionare di fronte alle cose. Il suo approccio razionale ai problemi è ben evidenziato dai suoi saggi più brevi, come quelli raccolti in “Parerga e Paralipomena” (un titolo assurdo per testi invece brillanti), e soprattutto come “L’arte di essere felici” e “L’arte di ottenere ragione”, pubblicati in Italia da Adelphi in agili libretti molto divertenti da leggere, e che si trovano persino al supermercato. 

Dell’ “Arte di essere felici” parleremo magari un’altra volta, adesso concentriamoci sull’ “Arte di ottenere ragione”, il cui titolo per esteso aggiunge: “esposta in 38 stratagemmi”. Va detto subito che per Schopenauer non si tratta di insegnare a imporre le proprie idee alla ricerca della verità assoluta, che non esiste, ma soltanto di suggerire come vincere nelle discussioni, confutando le affermazioni degli avversari, indipendentemente dal fatto che un argomento sia vero o falso. In pratica, la dialettica finisce per coincidere con l’eristica, ovvero, appunto, con l’arte di averla vinta. Leggendo, si capisce come molti politici che vanno nei talk show televisivi facciano ricorso proprio alle tecniche schopenaueriane. I trentotto stratagemmi sono tutti intelligenti, a volte diabolici, e in crescendo. Fino al trentottesimo, che è il più bello di tutti: quando non si riesce a ottenere ragione con altri mezzi, si diventi violenti e giù botte. Non è proprio così ma quasi. Più o meno il senso dell’extrema ratio è questo: quando ci accorgiamo che l'avversario è superiore e finiremo per aver torto, si diventi offensivi, oltraggiosi, violenti. Si passi dall'oggetto della contesa agli attacchi alla persona stessa del nostro contendente. Questo stratagemma è molto popolare, e lo usano istintivamente coloro che non sono all'altezza di sostenere altrimenti le loro tesi. Per cui può capitare di doverlo subire: per proteggersi non c'è che un mezzo: non discutere con tutti, ma solo con chi sia alla nostra altezza. Fra cento persone, ce n'è forse una degna che si disputi con lei.

Il libretto di Schopenauer, il cui titolo originale è Eristische Dialektik - Die KunstRecht zu Behalten venne pubblicato postumo dopo la morte dell’autore, avvenuta a Francoforte nel 1861. Quando lo lessi, alcuni anni fa, mi parve talmente geniale che provai a farne un riassunto, un mio Bignami personale, da tenere a portata di mano quando ci fosse stata una discussione con qualcuno e ritenessi di dover avere ragione per forza. Ho ritrovato quel mio adattamento, e mi è parso abbastanza semplificato e predigerito da poter essere utile a tutti. Perciò, provo a sottoporvelo. Non ho idea se si tratti di una proposta gradita o no, ma immagino di essere l’unico dei miei colleghi che si mette a scrivere di queste cose nel proprio blog. Però, che ci volete fare? Io mi diverto così e ognuno ha le sue personali perversioni. 


Arthur Schopenhauer
L'ARTE DI OTTENERE RAGIONE
ESPOSTA IN 38 STRATAGEMMI
Riduzione e adattamento di
Moreno Burattini

STRATAGEMMA N° 1: 
L'AMPLIAMENTO

Portare l'affermazione dell'avversario oltre i suoi limiti, in modo da interpretarla nella maniera più generale possibile, esagerarla. Restringere invece la propria affermazione nel senso più circoscritto possibile. Infatti, più un'affermazione diventa generale, tanto più essa presta il fianco ad attacchi.
Esempio:
A - Gli inglesi sono la prima nazione nel genere drammatico.
B - In realtà nell'opera lirica non hanno saputo combinare nulla.
A - La musica non è compresa nel genere drammatico, che designa solo la tragedia e la commedia.

STRATAGEMMA 2: 
OMONIMIA

Se l'affermazione dell'avversario contiene una omonimia (per cui due concetti sono indicati con la stessa parola) si può dare una confutazione di uno dei due sensi indicati da quel nome, fingendo di aver confutato anche l'altro. Esempio:
A - Vedo che lei non è iniziato ai misteri della filosofia kantiana.
B - Per principio, dove ci sono misteri, io non voglio saperne nulla.

STRATAGEMMA 3: 
UNIVERSALIZZAZIONE

Prendere l'affermazione avversaria presentata in modo relativo come se fosse assoluta, e confutarla sotto questo aspetto. Esempio:
A - Ho una grande ammirazione per lo scrittore Burroughs.
B - Ammirazione per un drogato che assassinò sua moglie?
L'ammirazione di A era intesa per il talento artistico di Burroughs, non per la figura dello scrittore in assoluto.

STRATAGEMMA 4: 
LENTA AMMISSIONE DELLE PREMESSE

Quando si vuole trarre una certa conclusione non la si lasci prevedere, ma si faccia in modo che l'avversario ammetta senza accorgersene le premesse in ordine sparso. Una volta che avrà ammesso gli elementi sparpagliati qua e là, si tirino le somme, inchiodandolo.

STRATAGEMMA 5: 
PREMESSE FALSE PER CONCLUSIONE VERA

Per dimostrare le proprie tesi ci si può servire anche di premesse false, quando l'avversario non ammetterebbe quelle vere. Infatti, il vero può derivare da premesse false, come Aristotele insegna.

STRATAGEMMA 6: 
POSTULAZIONE OCCULTA

Si fa accettare come basilare per la dimostrazione ciò che è oggetto della dimostrazione stessa, occultando la postulazione sotto falso nome o sotto giri di parole.
Esempio: si deve dimostrare che la medicina è scienza incerta, si fa concordare l'avversario sul fatto che ogni sapere umano è incerto.


STRATAGEMMA N° 7: 
VELOCITA' DI ESPOSIZIONE

Esporre rapidamente la propria argomentazione in modo che coloro che sono lenti di comprendonio non riescano a seguire esattamente i passaggi e non si accorgano di eventuali errori o lacune nell'argomentazione.


STRATAGEMMA N° 8: 
SUSCITARE L'IRA NELL'AVVERSARIO

Suscitare l'ira nell'avversario è vantaggioso perchè così costui potrà più facilmente cadere in errori grossolani.


STRATAGEMMA N° 9: 
NON SEGUIRE UN ORDINE

Se si deve giungere a una verità ponendo domande all'avversario, non si pongano le domande secondo l'ordine più logico. L'altro potrebbe infatti capire dove andiamo a parare e rispondere in maniera da ostacolarci. Dunque cambiare spesso direzione e mascherare il proprio modo di procedere.


STRATAGEMMA N° 10 : 
NON FAR CAPIRE SE SI VUOLE IL SI O IL NO

Se ci si accorge che l'avversario tende a rispondere "no" alle domande da noi poste, comprendendo che il "sì" porterebbe acqua al nostro mulino, occorre o impostare le domande in modo che il "no" ci sia favorevole, o porre le domande in maniera ambigua, non facendogli capire quale sia la risposta che ci avvantaggia (esempio, proponendo due tesi e chiedendo di scegliere).


STRATAGEMMA N° 11: 
DARE PER SCONTATA UN'AMMISSIONE NON DATA

Se noi facciamo un'induzione e l'avversario ci concede i singoli casi, non dobbiamo chiedergli se concede anche la verità generale che risulta da essi. Dobbiamo invece introdurla in seguito come già stabilita e concessa, perchè può anche accadere che egli creda di averla concessa, e la stessa impressione avranno anche gli ascoltatori.


STRATAGEMMA N° 12: 
SCELTA OCULATA DEI NOMI CON CUI DEFINIRE UN CONCETTO

Se l'avversario ha proposto un cambiamento, lo si chiami "innovazione", che suona in maniera più odiosa; se noi parliamo di un aspetto del culto, chiamiamolo "devozione", se ne parla l'avversario chiamiamolo "bigotteria" o "superstizione".


STRATAGEMMA N° 13: 
FAR ACCETTARE QUALCOSA 
PRESENTANDOLA IN MODO CHE L'OPPOSTO SUONI ASSURDO

Dovendo far ammettere all'avversario che i bambini devono sempre fare ciò che dicono i genitori, proporgli la questione in questi termini: "i bambini devono essere in ogni cosa obbedienti ai genitori, oppure disobbedienti?". Messa così la questione, l'avversario sembrerebbe pazzo se rispondesse nel modo opposto a ciò che noi vogliamo.

STRATAGEMMA N° 14: 
UN TIRO MANCINO

Dopo che l'avversario ha risposto a molte domande senza favorire la conclusione che abbiamo in mente, si enuncia e si esclama trionfanti come se la conclusione che volevamo trarre fosse stata dimostrata, sebbene essa non conseguisse affatto dalle risposte. Se l'avversario è timido o sciocco,e se noi abbiamo una buona dose di impertinenza, il tiro mancino può riuscire.


STRATAGEMMA N° 15: TESI PARADOSSALE

Se abbiamo presentato una tesi paradossale e ci troviamo in imbarazzo nel dimostrarla, possiamo portare a suo sostegno una tesi giusta ma che, a ben guardare, non sostiene il nostro assunto. Se l'avversario, per scagliarsi contro il nostro paradosso iniziale, negherà la tesi giusta, avremo buon gioco nel dire che evidentemente non capisce niente. Se invece l'accetterà, intanto abbiamo detto qualcosa di ragionevole (suscitando buona impressione negli ascoltatori e nei giudici), poi si vedrà. Oppure si ricorre allo stratagemma precedente e si bluffa dicendo che il nostro paradosso è dimostrato (mentre non lo è).


STRATAGEMMA 16: 
CERCARE CONTRADDIZIONI NELL' AVVERSARIO

Di fronte a un'affermazione dell'avversario dobbiamo cercare se per caso non sia in qualche modo in contraddizione con qualcosa che egli ha detto in precedenza, oppure con i canoni di una scuola da lui lodata, oppure contro il suo stesso comportamento. Se per esempio egli difende il suicidio, allora gli si replica "Allora perché non ti impicchi?".


STRATAGEMMA 17: 
SOTTILE DISTINZIONE

Se l'avversario ci mette all'angolo incalzandoci con una controprova che smonta una nostra precedente affermazione, ci si può salvare escogitando una sottile distinzione che modifica il senso di quando avevamo detto quel tanto che basta per difenderci. 


STRATAGEMMA 18: 
CAMBIARE ROTTA

Se ci accorgiamo che l'avversario ha messo mano a una argomentazione con cui ci batterà, non dobbiamo consentire che arrivi a portarla a termine, ma dobbiamo interrompere, allontanare o sviare per tempo l'argomento della disputa e portarla su altre questioni.


STRATAGEMMA 19: 
ILLUSORIETA' DEL SAPERE UMANO

Se l'avversario ci sollecita esplicitamente a esibire qualcosa contro un determinato punto della sua affermazione, e noi non abbiamo niente di adatto, allora dobbiamo svolgere la cosa in maniera assai generale e poi parlare contro tali generalità. Ci viene chiesto di dire perchè una ipotesi fisica non è credibile? Parliamo dell'illusorietà del sapere umano e ne diamo ogni sorta di esempi.


STRATAGEMMA 20: 
TIRARE NOI LE CONCLUSIONI

Una volta richieste all'avversario le premesse e una volta che egli le abbia concesse, tiriamo noi stesse le conclusioni il più rapidamente possibile (non chiediamo all'avversario di tirare lui la conclusione, che sarebbe pericoloso per i nostri intenti).



STRATAGEMMA 21: 
METTERE IN LUCE LA CAPZIOSITA' DEI SOFISMI AVVERSARI 
E UTILIZZARE SOFISMA CONTRO SOFISMA

Se l'avversario fa uso di un argomento sofistico e capzioso, ne mettiamo subito in luce la capziosità di fronte agli ascoltatori, e lo umiliamo sostenendo che, stando così le cose, possiamo anche noi far ricorso a giochetti sofistici.


STRATAGEMMA 22: 
RIGETTARE LE AFFERMAZIONI DA CUI LA TESI AVVERSARIA 
TROVEREBBE IMMEDIATA CONSEGUENZA

Se l'avversario ci chiede di ammettere una cosa la cui affermazione porterebbe a ritenere valida, per conseguenza diretta, la tesi opposta alla nostra, dobbiamo negarla con la massima fermezza sostenendo che non si può dare per scontato qualcosa che è strettamente collegato al problema in discussione e che, appunto perchè è in discussione, è viceversa dubbio.


STRATAGEMMA 23: 
SPINGERE L'AVVERSARIO A ESAGERARE LE PROPRIE AFFERMAZIONI

La contraddizione e la lite spingono a esagerare le affermazioni. Possiamo dunque stuzzicare l'avversario e indurlo a esagerare oltre il vero le proprie affermazioni. Una volta confutata l'esagerazione sarà come se avessimo confutato l'argomento. Per contro, dobbiamo stare attenti a non esagerare noi le nostre affermazioni.


STRATAGEMMA 24: 
DALLE TESI DELL'AVVERSARIO 
TRARRE CONSEGUENZE ASSURDE O PERICOLOSE

Anche a forza, e distorcendo volutamente il pensiero altrui, traiamo dalle tesi avversarie conseguenze assurde o pericolose agli occhi degli uditori. In tal modo, avremo confutato la validità delle tesi stesse.


STRATAGEMMA 25: 
NON LASCIARSI INGANNARE DALLE "ISTANZE" DELL'AVVERSARIO.

Le "istanze" sono singoli casi di applicazione della verità generale. Per esempio, la proposizione: "Tutti i ruminanti sono cornuti" è invalidata dall'istanza del cammello. Se l'avversario usa appunto un'istanza per invalidare una nostra tesi generale, dobbiamo essere pronti a confutare la validità dell'istanza che potrebbe essere ingannevole, o noi dobbiamo farla ritenere tale. Infatti, talvolta gli esempi portati a obiezione semplicemente non sono veri (come nel caso di storie di spiriti) o sono stati addirittura inventati apposta; oppure le istanze non rientrano nella tesi generale se non apparentemente; oppure ancora, l'istanza non è affatto in reale contraddizione con la proposizione originaria, ma solo lo sembra.

STRATAGEMMA 26: 
RITORCERE CONTRO L'AVVERSARIO LE SUE TESI

L'argomento usato da un avversario può essere usato contro di lui. Esempio: "E' un bambino, non bisogna castigarlo". Ritorsione: "Appunto perchè è un bambino, va castigato affinchè non prenda brutte abitudini".


STRATAGEMMA 27: 
INCALZARE L'AVVERSARIO CHE SI ADIRA SU UN CERTO ARGOMENTO

Se di fronte a un certo argomento l'avversario si adira, allora bisogna incalzarlo senza tregua proprio da quel lato. Non solo perchè va bene per farlo montare in collera (cosa che gioca a nostro favore), ma perchè si deve supporre di aver toccato il lato debole del suo ragionamento e dunque, scavando, si può nuocergli più di quanto avessimo sospettato in partenza.


STRATAGEMMA 28: 
FAR PASSARE L'AVVERSARIO PER IDIOTA AGLI OCCHI DEGLI UDITORI 

Quando due persone colte disputano di fronte a persone incolte, si può usare una confutazione "ad uditores", cioè una obiezione non valida, magari in grado di mettere in ridicolo l'avversario, di cui però solo un esperto possa vedere l'inconsistenza. Mentre l'avversario può essere appunto un esperto, tali non sono gli uditori. Ai loro orecchi, l'avversario viene appunto battuto, tanto più se la nostra obiezione riesce a far ridere di lui chi sta ascoltando. A ridere la gente è sempre pronta (chi ride, è subito dalla nostra parte), e per dimostrare che la nostra obiezione è nulla, l'avversario dovrebbe inoltrarsi in una lunga discussione su cui non troverebbe facilmente ascolto.

STRATAGEMMA 29: 
CAMBIARE ARGOMENTO IN CASO DI DIFFICOLTA'

Se ci si accorge di essere battuti su un argomento, allora occorre fare una diversione, affrontando qualcosa di più o meno diverso a seconda della circostanza. Ad esempio: se uno loda il fatto che nella Cina medievale le cariche pubbliche venivano assegnate per meriti e non per nobiltà, e se un altro volesse difendere i valori dell'ereditarietà nobiliare, può cominciare a parlar male della Cina evidenziando le leggi ingiuste che peraltro abbondano in quel Paese, come le severe punizioni corporali per minimi reati. Questo stratagemma è istintivo anche nelle discussioni fra popolani: quando uno avanza a un avversario dei rimproveri personali che questi non può confutare, la risposta è in genere il rinfacciamento al primo di altre sue pecche non meno gravi. Dunque l'accusato non replica alle accuse, ma trasferisce altrove il terreno di battaglia.

STRATAGEMMA 30: 
RIFARSI A UN'AUTORITA' RICONOSCIUTA

Al posto di proprie motivazioni, si accampino massime e citazioni di filosofi, pensatori, autorità civili e/o spirituali. Anche se questo non convincerà l'avversario, farà presa sugli ascoltatori che, in linea di massima, hanno grande rispetto per gli esperti e i dotti in genere. E se l'avversario si ribellerà a quanto noi diciamo, sembrerà ribellarsi all'autorità di grandi pensatori del passato. All'occorrenza, le citazioni e le massime si possono anche distorcere, modificare e addirittura falsificare e inventare a nostro uso e consumo: raramente l'avversario si prenderà la briga di ricercare e controllare l'esattezza dei nostri rimandi.


STRATAGEMMA 31: 
IRONIZZARE SULLE TEORIE DELL'AVVERSARIO, 
RIFIUTANDOSI DI CONFUTARLE 
PERCHE' COSI' CONTORTE DA RISULTARE INCOMPRENSIBILI

Qualora non si sappia opporre nulla alle ragioni esposte dall'avversario, ci si dichiari, con fine ironia, incompetenti: "Quello che lei dice supera la mia debole capacità di comprensione: non riesco a seguirla nei suoi mirabolanti ragionamenti e rinuncio a ogni giudizio". Questo stratagemma funziona solo se noi siamo tenuti in considerazione dall'uditorio, e non possa essere messa in dubbio la nostra capacità di comprensione.


STRATAGEMMA 32: 
RELEGARE LA TESI AVVERSARIA 
NELL'AMBITO DI SCUOLE DI PENSIERO ODIATE DALL' UDITORIO

Un modo spiccio per accantonare, o almeno rendere sospetta, un'affermazione avversaria, è quello di ricondurla a una categoria odiata dagli uditori, anche se la relazione è solo di vaga somiglianza o è tirata per i capelli: "Questo è manicheismo! questo è arianesimo! questo è misticismo! questo è ateismo!" e via dicendo. Essendo queste categorie date per già confutate a priori, la tesi avversaria non può contenere neppure una parola di vero.


STRATAGEMMA 33: 
RITENERE LA TESI AVVERSARIA GIUSTA "IN TEORIA", 
MA FALSA "IN PRATICA"

"Ciò sarà anche vero in teoria; in pratica però è falso". Con questo sofisma si ammettono le ragioni e tuttavia si negano le conseguenze. In realtà, così facendo, si nega anche la teoria, perchè ciò che è giusto sul piano della logica deve esserlo anche su quello della pratica, perchè se ciò non si verifica, allora c'è un errore nelle premesse teoriche, qualcosa che sfugge, o che non è stato sufficientemente calcolato.


STRATAGEMMA 34: 
BATTERE LA LINGUA DOVE IL DENTE DUOLE

Se a una domanda o a un argomento l'avversario non dà una risposta diretta ma evade e cerca di andare a parare altrove, ciò è segno sicuro che abbiamo toccato un punto dolente su cui è necessario incalzare, senza mollare, anche quando non ci sia immediatamente chiaro in che cosa consistano i timori e la debolezza altrui.


STRATAGEMMA 35: 
DIMOSTRARE CHE LA TESI AVVERSARIA E' NOCIVA 
ALL'AVVERSARIO STESSO E/O ALLA CATEGORIA DEGLI UDITORI

Se si ha di fronte un religioso che sostiene un dogma filosofico (a noi nocivo), gli si faccia intendere che lo stesso dogma è in contrasto che la dottrina della Chiesa, e costui lo lascerà cadere come fosse un ferro rovente. In generale, si faccia credere all'avversario che la sua tesi, fosse anche giusta, renderebbe danno alla categoria di cui fa parte. Se di questa categoria fanno parte anche gli uditori, tutti troveranno deboli e miserabili gli argomenti del nostro avversario.
Per esempio, se costui loda il progresso tecnologico, gli faremo notare che i suoi allevamenti di cavalli andranno in rovina il giorno in cui delle macchine traineranno le carrozze. 


STRATAGEMMA 36: 
SCONCERTARE L'AVVERSARIO CON FRASI PRIVE DI SENSO 
PRONUNCIATE PERO' COME SE FOSSERO SOMME VERITA'

Di fronte ad avversari consapevoli della propria debolezza, si può facilmente sconcertarli con sproloqui privi di senso propinati però con aria seria. Basterà dire una scemenza che suoni però dotta o profonda, e spacciarla come la prova più incontestabile del proprio pensiero. L'altro penserà di essere di fronte a qualcosa di così profondo da sfuggire alla sua stessa comprensione.


STRATAGEMMA 37: 
CONFUTARE NON LA TESI DELL'AVVERSARIO, 
MA LA PROVA O GLI ESEMPI PORTATI A SUO SOSTEGNO

Quando l'avversario, pur avendo nei fatti ragione, per nostra fortuna sceglie una cattiva prova, non avremo difficoltà a confutarla e poi spacceremo questa confutazione per la confutazione dell'intera sua tesi. Se al nostro avversario non viene in mente una prova migliore, abbiamo vinto noi. 


STRATAGEMMA 38:
L'EXTREMA RATIO, L'OLTRAGGIO E LA VIOLENZA 

Quando ci accorgiamo che l'avversario è superiore e finiremo per aver torto, si diventi offensivi, oltraggiosi, violenti. Si passi dall'oggetto della contesa agli attacchi alla persona stessa del nostro contendente. Questo stratagemma è molto popolare, e lo usano istintivamente coloro che non sono all'altezza di sostenere altrimenti le loro tesi. Per cui può capitare di doverlo subire: per proteggersi non c'è che un mezzo: non discutere con tutti, ma solo con chi sia alla nostra altezza. Fra cento persone, ce n'è forse una degna che si disputi con lei.