domenica 26 novembre 2017

I SOTTERRANEI DEL MAJESTIC





Georges Simenon
I SOTTERRANEI DEL MAJESTIC
Adelphi
1998, brossurato
150 pagine, 10 euro

Leggere i gialli con il Commissario Maigret è una sorta di droga come seguire le puntate di una serie TV particolarmente coinvolgente. Simenon è uno scrittore di razza, uno di quelli che non deludono mai perché sanno affabulare e leggendoli ci si accorge che i suoi personaggi prendono vita, sembra di vederli. Maigret, poi, è uno psicologo di prima categoria e riesce a leggere dentro i suoi interlocutori anche quando sembra che faccia domande senza importanza, mentre sa già dove andare a parare. Mi piace poi il suo essere abitudinario, comprensivo e partecipe del dolore e delle difficoltà, e anche delle piccolezze e meschinità altrui, ma quando serve anche burbero e decisionista se c'è da raggiungere un obiettivo (Maigret non si crogiola e non perde tempo). "Le caves du Majestic" è il ventesimo romanzo della saga del commissario parigino dall'eterna pipa in bocca. Fu scritto da Simenon nel dicembre del 1939 a Nieul-sur-Mer, ma pubblicato soltanto nel 1942 e rappresenta il ritorno dello scrittore al suo personaggio più famoso dopo che, come Arthur Conan Doyle con Sherlock Holmes, aveva deciso di abbandonarlo.
In Italia uscì in volume grazie a Mondadori nel 1960, con il titolo fuorviante di "Maigret e il sergente maggiore". Protagonista del giallo è Prosper Donge, che lavora nella caffetteria dell’albergo Majestic, sugli Champs-Elysées. E' lui che scopre, nello spogliatoio del personale, chiuso dentro un armadio, il corpo senza vita di una cliente dell'Hotel, Mrs Clark, moglie di un ricco industriale di Detroit. Si scoprirà che in realtà la donna era di origine francesi e che in passato aveva avuto una relazione proprio con Donge, quando era una entraîneuse a Cannes. Anzi, da Prosper aveva avuto un figlio che aveva però fatto credere figlio dell'americano con cui si era subito sposata. Donde diventa subito, pertanto, il principale sospetto. La verità si rivelerà essere un'altra.
Quasi tutto il racconto è ambientato nel vasto hotel Majestic, come nel primo romanzo con Maigret, "Pietr il Lettone" (del 1931). Belle le descrizioni del lavoro frenetico dietro le quinte di un grande albergo del genere, e interessante la ricostruzione della Parigi degli anni Trenta. Tuttavia colpisce questa frase: “Plebeo fino all’osso, anzi fino al midollo, Maigret provava ostilità verso tutto ciò che lo circondava lì al Majestic”.

sabato 25 novembre 2017

LETTERE A UN GIOVANE POETA



Rainer Maria Rilke
LETTERE A UN GIOVANE POETA
Mondadori 
1997, brossurato
100 pagine, 6.20 euro

"Le opere d'arte sono di una solitudine infinita, e nulla può raggiungerle meno della critica": uno dei più citati aforismi di Rilke è contenuto proprio in questo piccolo, ma aureo, libretto. Rainer Maria Rilke in realtà si chiamava René, ma si cambiò nome poco più che ventenne per dare un taglio con il passato vista l'infanzia infelice e solitaria che aveva condotto a Praga, dopo essersi trasferito nella più vivace Monaco. Fu solo l'inizio di un irrequieto spostarsi in giro per l'Europa (soggiornò anche in Italia e in Russia prima di stabilirsi in Svizzera) nonostante i pochi mezzi e la salute cagionevole: era deciso però a seguire la sua vocazione artistica e soltanto quella, perciò visse scrivendo nonostante in certi periodi della sua vita, come racconta egli stesso proprio in queste "Lettere a un giovane poeta", non avesse neanche i soldi per comprarsi i suoi libri. Tuttavia, prima l'aiuto di uno zio, poi uno stipendio corrisposto da un editore, gli permisero di essere ciò che voleva e soltanto quello: un poeta. A me è sempre stato simpatico fin da quando mi imbattei alle elementari in una sua poesia sul libro di lettura, "Il risveglio del vento":

Nel colmo della notte, a volte, accade
che si risvegli, come un bimbo, il vento.
Solo, pian piano, vien per il sentiero,
penetra nel villaggio addormentato.

Striscia, guardingo, sino alla fontana;
poi si sofferma, tacito, in ascolto.
Pallide stan tutte le case, intorno;
tutte le querce mute.

Le dieci lettere di Rilke raccolte in questo Oscar sono state tutte indirizzate, tra il 1903 e il 1908, a Franz Faber Kappus, che le ha pubblicate nel 1929 (tre anni dopo la morte del mittente, vittima della leucemia poco più che cinquantenne). Kappus, studente nella stessa accademia militare frequentata (suo malgrado) anche da Rilke, aveva scritto al poeta inviandogli in lettura alcune sue composizioni per averne un giudizio. Rilke gli rispose da Parigi con una garbata missiva che comincia così: "Non posso addentrarmi nella natura dei suoi versi, poiché ogni intenzione critica è troppo lungi da me. Nulla può toccare tanto poco un'opera d'arte quanto un commento critico: se ne ottengono sempre più o meno felici malintesi". Fra il giovane poeta e il più maturo autore nizia una corrispondenza che ha per tema proprio la poesia e che è bellissima da seguire. "Lei mi domanda se i suoi versi siano buoni. Lo domanda a me. Prima lo ha domandato ad altri. Nessuno può darle consiglio o aiuto, nessuno. Non v'è che un mezzo. Guardi dentro di sé. Si interroghi sul motivo che le intima di scrivere; verifichi se esso protenda le radivi nel punto più profondo del suo cuore; confessi a se stesso: morirebbe, se le fosse negato di scrivere?".

lunedì 20 novembre 2017

ORIGIN





Dan Brown
ORIGIN
Mondadori
2017, cartonato
560 pagine, 25 euro

Se qualcuno mi chiedesse perché, dopo aver letto gli ultimi romanzi di entrambi, non comprerò il prossimo di Paolo Cognetti (Premio Strega 2017) mentre certamente divorerò quello che scriverà Dan Brown (che mai vincerà alcun premio letterario), risponderei così: perché Cognetti (che ho cito soltanto perché è il più recente illustre premiato con la medaglia d'oro) non mi fa venire voglia di andare avanti pagina dopo pagina, mentre Dan Brown sì. Mi rendo conto che il limite è tutto mio, se prima del bello stile viene l'interesse per una trama che avvince e coinvolge, però che ci devo fare? La storia dell'amicizia ritrovata fra due ex ragazzi che si sono conosciuti durante le vacanze estive mi fa sbadigliare, quella della scoperta dell'origine della vita che mette in discussione tutte le credenze religiose mi appassiona. Sarò strano, ma è così. Del resto Dan Brown ha il talento (dal mio punto di vista) di saper scegliere proprio gli argomenti che maggiormente mi intrigano: Dio, il destino dell'umanità, una diversa interpretazione dei Vangeli, l'eterno femminino, la sovrappopolazione, le religioni, le opere d'arte, l'entropia, gli sviluppi della tecnologia (ho messo nel calderone le tematiche dei romanzi più noti dello scrittore statunitense). Premesso tutto ciò, il nuovo titolo di Brown, "Origin", che riporta sulle scene il personaggio di Robert Langdon, insegnante di simbologia religiosa ad Harvard, non è il migliore della sua produzione, pur facendosi leggere tutto d'un fiato nonostante le oltre cinquecento pagine. Lascia tuttavia soddisfatti perché effettivamente, alla fine della storia, le ipotesi che si propongono sulll'origine della vita e sul destino dell'uomo sulla Terra sono non soltanto plausibili ma perfino probabili. Come nel caso di "Inferno" riguardo alla sovrappopolazione, Brown ha (secondo me) perfettamente ragione. Del resto le stesse idee, più o meno, sono state sostenute letterariamente da Isaac Asimov (certi suoi racconti come "L'ultima domanda" o "Biliardo darwiniano" sono del tutto in linea), e scientificamente da parecchi studiosi le cui ricerche sono alla base della documentazione che Brown ha poi rimaneggiato per trasformarle in romanzo. Dunque, lo scrittore dà piena soddisfazione alle curiosità iniziali da lui stesse solleticate. Il nome di Asimov risulta particolarmente significativo dal momento che in "Origin" compare un personaggio insolito: un programma (di computer) senziente chiamato Winston, che rende il romanzo a pieno titolo un giallo fantascientifico avvicinabile ai racconti asimoviani con Multivac o con il detective robot Daniel Olivaw. Quel che un pochino lascia perplesso è il fatto che di nuovo, sostanzialmente, la trama ricalchi il deja vu di altri romanzi: Robert Langdon è in fuga, braccato, con una donna al suo fianco (in questo caso una certa Ambra), seguendo il filo di una sorta di caccia al tesoro destinato a trovare la soluzione a un appassionante quiz. Magari questa volta si poteva sperare in qualcosa di diverso, ecco. Poi sa un po' di "americanata" (uso sempre malvolentieri questo termine, ma in questo caso ci vuole) lo show con cui uno scienziato, Edmond Kirsch, intende annunciare al mondo la scoperta che cambierà tutto, in una sorta di grande party in collegamento con tutti i canali multimediali e con i social. Ecco un punto chiave, in effetti: il romanzo mette in evidenza quanto sia diventata importante la comunicazione via Internet. Però, suvvia, gli scienziati le loro scoperte le presentano in un altro modo. Strano anche che Kirsch fosse uno studioso solitario e indipendente e che soltanto lui fosse a conoscenza dei risultati che vuole, a un certo punto, rendere pubblici tramite un evento in stile hollywoodiano. Poiché qualcuno lo uccide prima della rivelazione, la caccia al tesoro condotta da Langdon punta a scoprire la password che dà accesso alla memoria del suo computer. Nella realtà gli scienziati lavorano in equipe e non c'è computer che un buon tecnico non riesca a violare anche senza password. Stupisce infine l'ambientazione spagnola, e soprattutto il ricorso una famiglia reale (nel senso del Re) del tutto irreale. Dato che l'universo di Langdon dovrebbe essere il nostro, e non una realtà parallela (almeno, vista l'attenzione dell'autore nel ricostruire luoghi e figure storiche), o non si fa cenno ai monarchi madrileni (utilizzando figure fittizie del loro entourage) o li si mette in scena con i loro veri nomi e cognomi.

mercoledì 15 novembre 2017

FACEZIE



Cinque libri in tre anni sono un discreto bottino. E' probabile che diventino sette in quattro, ma questo lo vedremo alla fine del 2018. Per ora, facendo un bilancio, vedo che dal 2015 a oggi sono arrivati in libreria "Utili Sputi di Riflessione", "Tex Secondo Letteri" e "Sarò bre" (editi da Allagalla) e "Dall'altra parte" e "Facezie" (pubblicati da Cut Up). Ci sarebbe in realtà anche il libro intervista della  collana "Lezioni di fumetto" (Comicout) dove rispondo alle domande di Laura Scarpa, ma appunto è un libro di Laura e non mio; e ci sarebbe ancor di più la raccolta di un romanzo e due short-tales "La capanna nella palude e altri racconti" (Cartoon Club) ma soltanto uno dei tre titoli è inedito, il più breve, e dunque lo si può considerare una ristampa (anche se con titolo e copertina nuovi). Lo scaffale dedicato alle mie pubblicazioni letterarie nella casa dei miei ventitré lettori si sta appesantendo sempre più, e siccome "Facezie", l'ultimo libro, è piuttosto ponderoso, bisognerà puntellarlo. Ovviamente scherzo, e sono io per primo a essere stupito della quantità di testi a mia firma dati alle stampe. Però, se gli editori (quei due o tre, ancora piccoli, di cui sono amico prima che collaboratore) me li accettano e talvolta me li chiedono e anzi li sollecitano, vorrà dire che qualcuno li compra e forse li legge. Me ne meraviglio, ma mi arrendo all'evidenza.

La lettura di "Facezie" sarà, per chi vorrà cimentarsi nonostante le 320 pagine, forse più gradevole e divertente, se non esilarante, di tutte le altre. Ci ho messo quaranta anni a scrivere questo libro, considerando che ci sono dentro anche testi comici che ho scritto quando frequentavo il liceo. Oltre a quelli (una intervista a Giulio Cesare, un poema goliardico in venti canti endecasillabi) sono finiti nel calderone le canzoncine di Cico, i monologhi di cabaret con protagonista una certa sboccatissima Bianca Bandiera, le vignette realizzate insieme a James Hogg (comprese le strisce del ginecologo Gustavo La Passera), le interviste a Zagor e a Dylan Dog apparse su "Collezionare", il dizionario degli insulti, le recensioni del Kamasutra e di altri testi sacri. 

Subito dopo la fantastica copertina di Walter Venturi e la  dotta e ironica (ironicamente dotta) prefazione di Stefano Fantelli, troverete una mia introduzione che vi copio qui sotto (così potete leggerla, se volete, senza comprare il libro). Vorrebbe essere un testo comico anche questoVolendo potete già ordinare il libro presso il sito della Casa editrice: fino al 15 novembre lo otterrete scontato (14 euro invece di 15) e con spedizione postale gratuita. Cioè vi basta un clic e vi arriva a casa. Ecco il link:



IL TEATRO DEI BURATTINI
di Moreno Burattini

In cognomen omen, si potrebbe dire. Chiamandomi Burattini, scappa da ridere a me che mi presento e a quello a cui tendo la mano. Tempo fa ho telefonato al teatro Colla per prenotare: “Vorrei dei posti per lo spettacolo di marionette”. “Va bene, a che nome?”. “Burattini”. Gelo dall’altra parte della linea. Avrà pensato che stessi prendendoli per i fondelli. E così mi devo trattenere nel prendere in giro gente che si chiama in modo strano, tipo Banana Yoshimoto: magari Burattini in giapponese significa cetriolo. Chissà se è per questo (per il cognome che mi è toccato in sorte) che ho sempre avuto il vezzo di cercare di far ridere. Il che non significa che ci sia sempre riuscito, anche perché ognuno ride a modo suo. Non intendo discutere su ciò che fa o che non fa ridere perché è un argomento scivoloso (e le scivolate, comunque, tranne quando capitano a me, mi fanno ridere). Una volta ho assistito a un esperimento in TV, in cui un italiano raccontava una esilarante barzelletta a un gruppo di arabi: neppure un accenno di risata. Quindi uno di loro raccontava all’italiano una loro storiella, che faceva sbellicare quelli con lui, ma che lasciava estremamente perplesso il nostro concittadino (e me). Quindi, noi e loro ridiamo in modo diverso. 

Ma anche tra di noi i pareri sono discordi e c’è chi, con mio estremo stupore, non ride guardando Fantozzi, chi storce la bocca di fronte a Checco Zalone e chi non tollera le gag di Cico. Perciò non mi illudo che le mie facezie riscuotano il plauso generale, mi accontento di quello colonnello (risate). Fatto sta che personalmente sono di bocca buona e rido di tutto (divertendomi moltissimo), poi ci sono quelli sofisticati e schizzinosi che ridono di molto meno o di quasi niente (divertendosi, temo, pochissimo). Io la penso come Stan Laurel, che scrisse una poesia dal titolo God bless all clowns, Dio benedica i clown. Venne letta alle sue esequie, insieme all’ultima frase detta dal grande comico: “Se qualcuno si azzarda a piangere al mio funerale, giuro che non gli rivolgerò mai più la parola”. Secondo Dostoevskij, si conosce un uomo dal modo in cui ride. Chissà che cosa pensano di me, allora, quelli che mi vedono sghignazzare di tutto. Penseranno che ci provi con ogni donna, basta che respiri. Il che purtroppo è vero, del resto. Secondo Umberto Eco, “quello che esce indenne dal riso, è valido; quello che crolla, doveva morire”. Quant’è vero. Se una verità non supera la prova dell’ironia, non è una verità. 

Un’altra verità è che, com’è chiaro, ho citato Dostoevskij e Umberto Eco per nobilitare questa introduzione, destinata a presentare un libro vergognoso. Del resto, non ho argomenti per giustificarlo e dunque finora ho divagato. Adesso non mi resta che cercare di spiegarvi qual è la tragica realtà. La casa editrice Cut Up si è accorta che vado in giro per l’Italia a presentare dovunque i miei libri di aforismi (pubblicati da un altro editore) e dunque si è detta: “Stampiamogli anche noi una raccolta di qualcosa di umoristico così nelle stesse presentazioni si porta dietro anche il nostro titolo, e facciamo promozione a costo zero”. Perciò mi è stato chiesto se avevo del materiale comico. Figuriamoci. Scrivo facezie da una vita. Le scrivevo sul diario di scuola dei miei compagni di liceo, facevo filastrocche per i commilitoni durante il servizio di leva, a tutti i matrimoni a cui sono invitato mi pregano di comporre una satira sugli sposi. Ho riempito di stupidaggini tutti gli spazi disponibili. Sul mio blog, su Facebook, su Twitter non faccio altro che piroette verbali. Per non parlare dei testi di cabaret, di quelli per il “Vernacoliere”, delle rubriche su Lupo Alberto e su Cattivik che ho curato per anni. Mettere insieme questa raccolta è stata una cosa da ridere, nel senso di molto facile. Che poi faccia ridere qualcuno tranne me, è tutto da dimostrare. Però, confido sulla quantità della proposta: fra tutte le stupidaggini che troverete (parolacce, doppi sensi dozzinali e volgari, allusioni erotiche e sessiste, gag politicamente scorrette, rutti e suoni di flatulenze fatti con le ascelle) una almeno sono quasi certo che vi farà abbozzare un mezzo sorriso. Se siete italiani. Se siete arabi, non lo so (risate islamofobe). 

Cut Up mi ha cercato dunque di nuovo dopo la raccolta di racconti inquieti “Dall’altra parte”, segno che la prima ho fatto buona impressione. Non posso che ringraziare per la fiducia l’editore e il mio supervisore Stefano Fantelli. Altri ringraziamenti vanno a Walter Venturi, autore della fantastica copertina (che da sola vale il prezzo del volume) ma anche mio consulente per il romanesco dell’Intervista a Giulio Cesare (che troverete più avanti). Eternamente grato sarò poi a James Hogg, disegnatore più toscano di me a dispetto del nome, mio sodale nelle vignette che da tempo andiamo realizzando insieme, alcune delle quali raccolte in queste pagine (in attesa di un libro tutto nostro che proponga l’opera omnia di Burattini & Hogg). Infine, una menzione speciale a Valentina Uccheddu che mi ha aiutato a tradurre in italiano testi scritti originariamente in vernacolo fiorentino. Essendo lei sarda, non capirò mai come abbia fatto. Baci, abbracci e scuse a tutti voi.



venerdì 10 novembre 2017

MAXMAGNUS





Max Bunker
Magnus
MAXMAGNUS
1000voltemeglio Publishing
2017 - 68 pagine

brossurato, 9.99 euro

Come scrive Max Bunker nella sua presentazione di questa nuova edizione del suo capolavoro, "dopo quasi cinquant'anni queste storie sono ancora fresche a dimostrazione di quanto nulla cambi nella gestione del potere".
La "controfavola" delle avventure di Re Maxmagnus e del suo malefico braccio destro si dipana lungo una serie di short-stories, pubblicate uno dopo l'altra sulla rivista Eureka a partire dal marzo 1968. Il racconto è un capolavoro di satira, la "summa" dell'umorismo amaro e grottesco di Magnus & Bunker, il loro prodotto più riuscito. In un reame immaginario e in un medioevo da metafora senza date, dove si rispettano le leggi della favola più che quelle della storia, un Re avido e approfittatore, Maxmagnus, e il suo Amministratore Fiduciario sfruttano e derubano in maniera ignobile i poveri contadini, tra i quali maturano lentamente i germi della rivolta. Nel contorno, si muove un teatrino di altri personaggi, quali la Regina manesca e megera, la figlia dei sovrani bruttissima e stupida, il "vicino di regno" Re Porcione, maghi e streghe, briganti, un gruppo di rivoluzionari di professione di chiaro stampo marxista. Ma il personaggio più riuscito è senza dubbio l'Amministratore Fiduciario, vero e proprio Machiavelli degli intrighi di corte, astuto, ladro e imbroglione, degna spalla, comunque, dell'altrettanto turpe Re. Quando negli ultimi episodi della serie scoppia la rivolta e la sorte arride agli insorti, l'Amministrazione non esita a cambiare bandiera schierandosi contro il sovrano. Alla fine, dopo la rivoluzione, tutto rimane com'è: il popolo continua a essere sfruttato, l'Amministratore continua a estorcere balzelli, ma questa volta in nome della "repubblica popolare" anziché della monarchia; i poveracci sono rimasti poveracci ma hanno la grande opportunità di essere tutti uguali, e di chiamarsi l'un l'altro "cittadino". La musica, insomma, è sempre quella: sono solamente cambiati i suonatori.
Significativa, a questo proposito, l'ultima scena di "Capitolazione!", l'episodio che chiude la serie delle short-stories. I rivoltosi hanno occupato il palazzo e mandato in esilio il re. "Siamo noi che comandiamo, ora le tasse le pagheranno solo i ricchi", dice il primo rivoluzionari.; "I poveri saranno esentati, solo i ricchi pagheranno a favore dei meno abbienti", dice il secondo. "Una cosa vi è sfuggita - li corregge l'Amministratore, appena passato dalla loro parte - vi dimenticate che ora i ricchi siamo noi". Così l'ultima vignetta della serie ricalca la prima, dalla quale tutto era iniziato. L'Amministratore riscuote i tributi della plebe, ma adesso sul suo cappello è appuntata la stella rivoluzionaria. "Ecco qui, è tutto quanto possiedo, cittadino amministratore", dice il primo dei tartassati. "E che altro ti serve, cittadino straccione? Hai fatto il tuo dovere e puoi morire contento".
Non sfugga la valenza anticomunista di questo finale, così come la lunga serie di malefatte del Re e dell'Amministratore avevano una chiara connotazione anticapitalista. Insomma, se è vero che Maxmagnus è un fumetto che non a caso nasce nel Sessantotto, è vero anche che riesce a far satira in tutte le direzioni, colpendo a destra e a manca senza doppiopesismi né cerchiobottismi. Insomma, se con il Sessantotto va in crisi il principio di autorità e l'imperativo della satira è dissacrare, il sarcasmo di Magnus e Bunker dissacra anche il Sessantotto.
Analizzando il contenuto umoristico, Maxmagnus può essere considerato come la "prova generale" di Alan Ford. Le avventure dell'avido Re Maxmagnus, in quei brevi ma ficcanti episodi che sono un gioiello di sintesi narrativa, sono la più divertente satira politica dei rapporti fra governanti e governati che mai sia stata realizzata. Probabilmente ancora più divertente dello stesso Alan Ford, nel quale la satira politica è solo un elemento di una più ampia satira sociale.
«Il medioevo di Maxmagnus - ha scritto Francesco Manetti sulle colonne del "Fumetto" dell'Anafi - è in realtà l'Italia odierna, dove il cittadino è costantemente tartassato da uno Stato ingordo, qui incarnato dall'Amministratore, che passa il suo tempo a scovare nuovi modi per truffare il popolo e persino Sua Maestà. Due personaggi negativi, due antieroi per una saga dal sapore profetico».
A dar retta al calendario, Magnus & Bunker avrebbero creato la coppia Re-Ministro qualche tempo prima di dar vita ad Alan Ford. Maxmagnus infatti esordì sulle pagine di Eureka nel 1968, mentre le avventure del Gruppo TNT avrebbero cominciato a essere raccontate solamente nel maggio dell'anno successivo. Tuttavia il "prima" ha in questo caso un valore piuttosto limitato, perché se si considera la lunghissima gestazione di Alan - la cui preparazione durò parecchi mesi, come ha più volte testimoniato Bunker - la nascita dei due personaggi può essere considerato un parto gemellare. Si potrebbe dire, con questo, che l'approdo del duo Secchi-Raviola sul pianeta del fumetto comico e satirico era inevitabile, quasi un'esigenza richiesta dalla natura stessa della loro ispirazione. Va del resto segnalato come il marchio di fabbrica dell'osannata coppia Magnus & Bunker è così evidente che non solo il nome del re e del reame (Maxmagnus, appunto) si rifà agli pseudonimi dei due creatori, ma gli stessi personaggi hanno le sembianze del soggettista (il Re) e del disegnatore (l'Amministratore).
Il segno di Magnus ha qui raggiunto la maturità, scivolando in un tratto grottesco e caricaturale che - pur con le successive correzioni - rimarrà per sempre una delle caratteristiche del disegnatore bolognese. Le caratterizzazioni grafiche dei vari personaggi (il re pancione ed ozioso, il rivoluzionario segaligno e con gli occhiali spessi da intellettuale, la plebe cenciosa e ignorante, i banchieri grassi ed eleganti) costituiscono anzi un sicuro elemento della buona riuscita del personaggio. L'episodio del luglio 1970 è l'ultimo della serie: alcuni mesi dopo tutte le avventure del Re e del suo fido amministratore vennero raccolte in volume, ottenendo nel 1971 il "Dattero d'oro" al 24° Salone dell'Umorismo di Bordighera come miglior fumetto dell'anno. Un seguito, tuttavia, ci fu. Alla fine degli anni settanta Bunker tentò infatti di riproporre le avventure di Maxmagnus in una nuova edizione, "rivista e corretta" sotto forma di storie lunghe che però ricalcavano l'intelaiatura di fondo della serie di short-stories. I soggetti erano sempre firmati da Max Bunker, ma i disegni - non essendo Magnus più disponibile - vennero affidati a Leone Cimpellin.