martedì 6 marzo 2018

ELEGIE DUINESI




Rainer Maria Rilke
ELEGIE DUINESI
Crocetti Editore
1999, brossurato
90 pagine, 22.000 lire


Le Duineser Elegien, ovvero “Le elegie duinesi”, sono una raccolta lirica di Rainer Maria Rilke, poeta e drammaturgo boemo di lingua tedesca (nato a Praga nel 1875, morto in Svizzera nel 1926) . Le dieci composizioni furono iniziate nel 1912 durante un soggiorno di Rilke a Duino (nei pressi di Trieste), ma dopo un fulmineo impeto creativo che portò alla composizione di un primo nucleo, l’opera fu portata a compimento soltanto dieci anni dopo. In una sua introduzione a una edizione del 2006, il critico Michele Ranchetti scrive: “Ogni Elegia deve considerarsi come come una tesi che Rilke illustra in una serie di ragionamenti in poesia. Alcuni passi sono oscuri». In che conforta chi, affrontando la lettura delle liriche, resti turbato e spiazzato dalla loro bellezza quanto dalla loro oscurità. 
Tuttavia, cimentandosi nell’interpretazione, sia o non sia quella che gli voleva dare Rilke, c’è di che rimanere affascinati. Si può partire dalla constatazione di come il poeta, nato e cresciuto in un ambiente cattolico e borghese, e istintivamente portato verso una naturale religiosità, si sia progressivamente distaccato dal tradizionale modo di intendere la spiritualità e di rapportarsi a Dio. Si potrebbe dire che entra in crisi, anche perché si sente senza patria e vive in nel clima del decadentismo artistico di fine Ottocento e di inizio Novecento. Perde le certezze basilari della vita e ne cerca altre, influenzato anche dai suoi contemporanei Kafka, Freud e Nietzsche e dal precedente Schopenhauer. Rilke osserva il mondo, fa indagini sullo spirito e sulla natura, si interroga filosoficamente sull’esistenza e sulla morte. Da questo tumultuare di riflessioni, nascono le domande delle Elegie. “Essere qui è stupendo”, dice il poeta in un passaggio della settima Elegia, dove si inneggia alla vita contro il destino della morte. Nell settima il concetto è ribadito: l’uomo è fragile, ma “essere qui è tanto”, al punto che, sia pure apparentemente, “ogni cosa qui ha bisogno di noi, noi più fragili di tutto”. L’esistenza è resa più preziosa dal fatto che viviamo una sola volta: “una volta e mai più. Mai più”. Non che “essere stati di questa terra” conti qualcosa per le stelle. A loro, nulla importa. Loro sono “indicibili”. Ma conta per noi, per poter “dire”. “Dire: casa, ponte, fontana, porta, brocca, albero da frutta, finestra – al più colonna, torre… ma per dire, capisci, oh, per dire così come le cose stesse non hanno mai veramente creduto di essere”. Conta il nostro dolore, la nostra fatica, la nostra “esperienza d’amore”, la nostra testimonianza. “Qui è il tempo del dicibile, qui la sua patria”, contrapposta alle dimensioni indicibili. “Vedi, io vivo. Vita sovrabbondante mi zampilla nel cuore”. Questi versi mi ricordano, e chissà se c’è davvero un collegamento, quelli di una canzone di Roberto Vecchioni, “La stazione di Zima”, in cui l’uomo parla a Dio sentendosi estraneo alla sua grandezza e orgoglioso della sua dimensione umana. La dimensione divina, del resto, che Rilke racchiude nel concetto degli Angeli a cui fa costante riferimento, è inarrivabile. E’ ciò che esprime il famoso incipit della prima Elegia: “E chi allora, se gridassi mi sentirebbe, degli ordini angelici?”. La risposta è scontata: nessuno. Ma se anche uno degli Angeli scendesse a stringerci, che sarebbe di noi? “Morirei della sua più forte essenza. Perché la bellezza non è altro che l’inizio del tremendo, che appena riusciamo a sopportare, e ci fa tanta meraviglia perché, tranquillo, disdegna di distruggerci. Ogni angelo è tremendo”. Un verso magnifico, questo. Non a caso la triestina Susanna Tamaro ha intitolato proprio “Ogni angelo è tremendo” la propria autobiografia. La cosa più vicina a Dio che un uomo può provare è l’amore, soprattutto quello doloroso, non contraccambiato. Gli innamorati sono le creature più vicine agli Angeli, che comunque li ignorano. 
Un simbolo ricorrente è quello dell’albero, che dalla terra nella quale ha le radici protende i suoi rami, come braccia disperate, verso il cielo. Tra le altre tematiche delle Elegie Duinesi ci sono anche la maternità, la paternità, l’infanzia, gli eroi, la memoria, la caducità della vita sublimata però dalla creazione artistica, la paura della morte. Nell’ottava Elegia si confronta il diverso destino degli uomini e degli animali: entrambi abbiamo, come creature dal tempo limitato, la morte che ci segue. Però loro guardano davanti, noi guardiamo indietro. La morte la vediamo soltanto noi. “L’animale, libero, ha la sua morte sempre dietro di sé e Dio davanti, e quando se ne va, allora va in eterno, come scorrono le fontane. Noi non abbiamo mai davanti, neanche per un sol giorno, il puro spazio nel quale i fiori sbocciano in continuazione”. Nella decima Elegia si affronta il tema della felicità. Secondo Rilke, la felicità è come una pioggia “che cade a primavera sulla terra nera”. Piove quando vuole lei, non quando vogliamo noi. Se lo capissimo, “noi che pensiamo alla felicità come a qualcosa che sale, sentiremmo l’emozione, che quasi ci sgomenta, di quando una cosa felice cade”.

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