martedì 23 agosto 2016

IL POSTO



IL POSTO
di Annie Ernaux
L'Orma
2014, brossurato,
120 pagine, 10 euro

Leggo nel risvolto di copertina: "'Il posto' è un romanzo autobiografico che riesce, quasi miracolosamente, nell'intento più ambizioso e nobile della letteratura: quello di far assurgere l'esperienza individuale a una dimensione universale, che parla a tutti noi di tutti noi". Non si potrebbe commentare meglio il senso di questo libro, se non forse, ricorrendo, non senza forzatura, al verbo "sublimare", inteso nel senso di trasformare un qualcosa di umile in qualcosa di nobile, e nobile, in questo caso, perché in grado di rappresentare l'essenza della nostra vita e della nostra storia. Annie Ernaux, nata a Lillebonne (Francia) nel 1940, che con "Il posto" ha vinto il Prix Renaudot nel 1984 (è una sorta di Premio Strega d'Oltralpe, assegnato fin dagli anni Venti), parte raccontando la morte di suo padre, avvenuta all'età di sessantasette anni, nel 1982. L'uomo, di cui non si fa mai il nome, gestiva con la moglie (la madre dell'autrice) un piccolo bar con annessa rivendita di generi alimentari in un paesino della Senna Marittima. I periodi della narrazione sono brevi, le parole essenziali, le frasi taglienti come rasoi. La commozione (pur evidente) della Ernaux non le impedisce di essere gelida, chirurgica, nella descrizione dei gesti e degli ambienti poveri e dignitosi nella sua casa di origine. La vestizione del cadavere, la visita dei parenti, il funerale. E poi i ricordi, che suggeriscono all'autrice un libro sulla vita del defunto. Quindi, la convinzione che scrivere un vero e proprio romanzo sia impossibile. "Per riferire di una vita sottomessa alla necessità non ho il diritto di prendere il partito dell'arte, né di provare a far qualcosa di 'appassionante' o di 'commovente'. Metterò assieme le parole, i gesti, i gusti di mio padre, i fatti di rilievo della sua vita, tutti i segni possibili di un'esistenza che ho condiviso anch'io. Nessuna poesia del ricordo. La scrittura piatta mi viene naturale, la stessa che utilizzavo un tempo scrivendo ai miei per dare le notizie essenziali". Fatta questa dichiarazione di intenti, la Ernaux comincia "qualche mese prima del Novecento, in un paese nel Pays de Caux, a venticinque chilometri dal mare". Lì viveva suo nonno, che lavorava in una fattoria come carrettiere: "ogni volta che qualcuno mi ha parlato di lui, la narrazione come cominciava sempre con 'non sapeva né leggere né scrivere". Quindi, la vita del papà di Annie comincia nella più nera miseria, e il resto è un percorso di lento affrancamento che corrisponde a quello di un'intera società. L'uomo prima fa il contadino, poi l'operaio. Sa quali sono i suoi doveri, qual è il suo posto. Lavora per migliorare la propria condizione e quella della propria famiglia, d'accordo con la moglie, con cui battibecca senza litigare mai, in uno sforzo costante di conservare comunque rispetto e decoro nonostante la povertà di mezzi e di istruzione. Riesce, primo fra tutti nella sua famiglia di origine, a divenire proprietario della casa in cui vive, per quanto misera, e quindi apre un esercizio commerciale, sempre a rischio di chiusura per la concorrenza di quelli "più grossi" protetti, a suo dire, dal governo. Intanto passano le stagioni delle epidemie (la difterite si porta via a sette anni la prima figlia), della guerra e dei bombardamenti (l'uomo si dà da fare nel vettovagliamento dei civili), della ricostruzione (che permette l'apertura di negozi più belli e moderni in centro, con il conseguente ridimensionamento delle vecchie drogherie di periferia). Ci sono poi gli studi di Annie, che diventa una insegnante: il padre ne percepisce la diversità, la figlia è diventata colta e letterata, altro da lui che legge poco e non sa di che cosa parlarle. Quando lei porta a casa il fidanzato, anche lui istruito, il padre si preoccupa di non far fare brutta figura alla figlia per le sue umili origini. Quindi i primi segni di vecchiaia, le fatiche degli anni, la senilità. Non c'è niente, nella vita di quest'uomo, su cui scrivere un romanzo: nessuna impresa su cui farci un film. Eppure la si segue riconoscendo la vita dei nostri padri e dei nostri nonni, e ci si commuove anche se niente è stato scritto per far scorrere una lacrima.

domenica 14 agosto 2016

PORCO GIUDA!



PORCO GIUDA!
di Giampaolo Merciai
La Lettera Scarlatta Edizioni
2016, brossurato, 
360 pagine, 17.50 euro

Probabilmente il titolo non consente di capire bene subito di che tipo di romanzo si tratti. Parlandone con l'autore, la spiegazione che vien fuori è questa: da un lato, "porco giuda!" è una delle esclamazioni che si ripetono, in bocca al protagonista Gianrico; dall'altro, si allude al tradimento che è per l'appunto uno dei temi su cui si sviluppa la trama (e Giuda, si sa, è il traditore per antonomasia). Il primo paragone che viene in mente procedendo con la lettura, per lo più avvincente, è con Dan Brown. Una sacra reliquia, un monaco, un mistero religioso, un morto in apertura di storia che lascia un messaggio cifrato, una sorta di caccia al tesoro in giro per il mondo. Tuttavia, se la comparazione serve a dare un'idea del genere di thriller imbastito da Merciai, sarebbe sbagliato ritenere il suo romanzo una imitazione del "Codice da Vinci". Diciamo che l'accostamento serve a delimitare un ambito. Merciai, classe 1944, pratese purosangue (nato dentro le mura, come lui ci tiene a dire), parte proprio da Prato e mette al centro del suo racconto il "Sacro Cingolo", ovvero la cintura della Madonna che, secondo la leggenda, prima della sua assunzione in cielo, la Vergine avrebbe consegnato a San Tommaso. Nel XII secolo, grazie a Michele Dagomari, mercante uso a viaggiare in Medio Oriente per commercio, la cinta arriva da Gerusalemme fino a Prato, dov'è conservata nel Duomo. Ai nostri giorni, uno dei discendenti di Michele, Alfredo Dagomari, viene ucciso nel centro della città e prima di morire fa in tempo a spedire al figlio Gianrico un biglietto su cui ha vergato un enigmatico messaggio. Gianrico, che vive a Napoli, non parla più con suo padre da quasi vent'anni, dopo che Alfredo, fotografo di guerra, lasciò la moglie gravemente ammalata per andare in Serbia e dunque non le fu vicino quando lei avrebbe avuto bisogni di lui e nel momento della morte. Dunque, c'è un conflitto padre-figlio che movimenta tutto il romanzo. Però, dato l'accaduto, Gianrico torna a Prato e comincia a indagare: sembra che qualcuno voglia impossessarsi del Sacro Cingolo e sia pronto a uccidere per questo. Seguono la scoperta di società segrete, intrighi internazionali, viaggi in città affascinanti di mezzo mondo (Belgrado, Sanpietroburgo, Shangai) in un intreccio di interazioni fra personaggi ben caratterizzati, tra cui alcune donne molto intriganti. Donne che sembrano apprezzare Giambico ma a cui però lui non cede, per colpa di una recente delusione amorosa che gli ha lasciato il segno. Di ciascuna di queste figure (il barbone Pietro, la bella serba Dunja, la poliziotta Lavinia, il feroce Stevan) ci si chiede se davvero siano quello che dicono di essere, perché Merciai cerca di seminare il dubbio a ogni pie' sospinto, e la trama prende più volte direzioni diverse, fino all'inaspettato finale. Il tutto piacerà agli amanti del genere. Le descrizioni di Prato sono elaborate e realistiche, al pari di quelle delle altre città che l'autore ha davvero visitato negli anni in cui, da buon pratese, aveva una azienda tessile e girava per affari. Dal 2003, dopo essersi ritirato dal mondo per lavoro, Merciai vive sulla montagna pistoiese e si dedica alla poesia, al teatro e alla scrittura. "Porco Giuda!" è il suo terzo romanzo.

sabato 13 agosto 2016

DIONEA E ALTRE STORIE FANTASTICHE



DIONEA E ALTRE STORIE FANTASTICHE
di Vernon Lee
Sellerio
2001, brossurato
120 pagine, 15000 lire

Violet Paget, in arte Vernon Lee, scrittrice inglese ma nata in Francia nel 1856 e morta a Firenze nel 1935, ha vissuto in Italia per quasi tutta la vita. Dalla sua villa fiorentina, dove riceveva personalità della cultura e coltivava le sue passioni artistiche e letterarie, scriveva per il periodico inglese "The London Mercury" corrispondenze dal Bel Paese. L'agile libretto pubblicato sa Sellerio nel 2001 raccoglie alcuni dei suoi racconti di genere fantastico, legati al soprannaturale, in cui si cimentò in alternanza ai saggi sull'arte e sull'estetica che costituiscono la sua principale produzione. Le storie di Vernon Lee sono di ambientazione italiana, a testimonianza della suggestione che la nostra terra esercitava sull'autrice, e legate quasi sempre alla mitologia e a reminiscenze romantiche. "Dionea", il racconto che dà il titolo alla raccolta, affascinante e ipnotico, racconta di una fanciulla giunta neonata dal mare, come piccola naufraga senza nome strappata alle onde, e allevata come trovatella in un borgo della Liguria. Fanciulla bellissima e maledetta, dal carattere impossibile, che irretisce gli uomini e porta alla pazzia un artista che cerca di imprigionarne la bellezza in una scultura. Dionea ha in sé la forza selvaggia della natura che si oppone alla civiltà e alla cultura, che non si può incasellare nelle regole del vivere sociale. Seguono altri racconti più brevi, tra cui "L'orecchio di Marsia", in cui si narra di una immagine in pietra trovata su una spiaggia dopo un naufragio e creduta raffigurare il Cristo, staccato dalla croce andata persa. Viene esposta in una Chiesa dove si susseguono fatti inquietanti finché si scopre che a essere raffigurato è un satiro pagano.

venerdì 12 agosto 2016

FUMETTO ITALIANO - CINQUANT'ANNI DI ROMANZI DISEGNATI




FUMETTO ITALIANO - CINQUANT'ANNI DI ROMANZI DISEGNATI
a cura di Paolo Barcucci e Silvano Mezzavilla
Skira
2016, cartonato
300 pagine, 40 euro

Si tratta del bel catalogo di una mostra, inaugurata a Roma e poi visibile in giro per l'Italia, dedicata ai graphic novel di casa nostra. Dopo una decina di interessanti e brevi saggi firmati da nomi illustri quali Daniele Barbieri, Sergio Brancato, Giulio Giorello e Luca Raffaelli (solo per citarne alcuni), seguono quaranta estratti da altrettanti romanzo grafici italiani disposti in ordine cronologico, da "Una ballata del mare salato" di Hugo Pratt del 1967, fino a un inedito di Gipi del 2016. Gli autori rappresentati hanno stili diversissimi (si va da Magnus, con "Lo sconosciuto", fino a Zericalcare con "Dimentica il mio nome", passando per Dino Battaglia, Filippo Scozzasti, Sergio Toppi, Manuel Fior, ma anche Leo Ortolani), come del resto possono essere diversi gli stili di quaranta scrittori di narrativa. Tutti sono comunque accomunati dalla capacità di rendere il fumetto "opera" oltre che "narrazione", qualcosa i cui segni costituiscono essi stessi il racconto e lo fanno attraverso la forte personalità dell'artista che li ha realizzati.
Quando qualcuno usa il termine “fumetto” con una accezione spregiativa, per denigrare un’ opera narrativa o cinematografica dal contenuto sciocco o assurdo, forse non se ne rende conto ma dice una sciocchezza, o un’assurdità. Chi giudica una trama superficiale o dei dialoghi banali etichettandoli come “da fumetto”, dimostra di non aver affatto compreso che cosa effettivamente sia il fumetto. Per chi crede che i fumetti siano roba per bambini o abbiano smesso di uscire da quando lui non li compra più, le sorprese rischiano di essere molte, e alcune addirittura stupefacenti. Innanzitutto, balza agli occhi la sorprendente capacità del racconto per immagini disegnate di veicolare emozioni di ogni tipo, senza nessun tipo di sudditanza verso altre tecniche di comunicazione quali il cinema, la musica o la letteratura. Il fumetto non è figlio di una musa minore rispetto ad altre arti. Può contare su un proprio codice espressivo che si caratterizza non solo per efficacia ma anche come perfetto punto d’incontro e contaminazione fra tutti i generi e le forme espressive, “una zona di libero scambio”, per usare un’espressione di Antonio Faeti, “un grande crocevia in cui si determinano incroci imprevedibili”. Un altro aspetto da mettere in risalto è la ricchezza di piani di lettura di temi, di target, di formati, di tecniche e di linguaggi offerti dalla produzione fumettistica mondiale. "Fumetto italiano" dimostra, in maniera inoppugnabile anche agli occhi degli scettici, non solo che i fumetti possono essere (e sono) letture assolutamente mature, in molti casi colte e perfino sofisticate,
Nel 1978, fu "A contract with God", di Will Eisner, uno dei massimi disegnatori americani, il primo libro a recare in copertina la dicitura “graphic novel”, romanzo a fumetti. Fu una rivoluzione, perché in precedenza, in America,i fumetti erano per lo più seriali (con protagonisti ricorrenti), pubblicati su comic book (albi spillati di piccolo formato), distribuiti nei chioschi o nei supermercati, ed erano in genere umoristici o di avventura. Con Eisner prima, e con il successo di autori come Art Spiegelman e Frank Miller dopo, i fumetti cominciarono a essere concepiti e proposti come veri e propri libri e, soprattutto, ci si abituò all’idea che potessero raccontare qualunque cosa, anche le angosce nevrotiche o il minimalismo quotidiano, la deportazione degli ebrei nei campi di sterminio o la guerra a Sarajevo, e farlo in modo tutt’altro che banale. In Italia (già, perché gli autori di fumetti italiani non hanno niente da invidiare a quelli del resto del mondo, anzi costituiscono una delle scuole più folte e talentuose), già nel 1968 usciva “Una ballata del mare salato” di Hugo Pratt, vera e propria “graphic novel” ante litteram anche se inizialmente pubblicata a puntate su rivista. Nel 1969 lo scrittore Dino Buzzati, peraltro apprezzato anche come pittore (e stranamente ignorato nel catalogo), riproponeva in un suo libro il mito di Orfeo ed Euridice attraverso un adattamento fantastico in chiave moderna intitolato "Poema a Fumetti", vero e proprio romanzo realizzato non in prosa ma secondo il codice fumettistico.

lunedì 8 agosto 2016

I COMPAGNI D'AVVENTURA DI ZAGOR



I COMPAGNI D'AVVENTURA DI ZAGOR 
a cura di Stefano Bidetti
SCLS Libri
2016, brossurato
396 pagine, p.n.i.

Resto sempre ammirato quando dei semplici appassionati (e dunque non degli editori professionisti) riescono a dare alle stampe e distribuire in proprio volumi come questo. E non si tratta di un evento fortunato dovuto al caso: Stefano Bidetti e Francesco Pasquali del forum SCLS (acronimo di "Spirito Con La Scure") hanno già all'attivo un tomo enciclopedico zagoriano intitolato "Zagortenayde" divenuto un bestseller e diversi numeri di una rivista ("SCLS Magazine Gold£) che non hanno nulla da invidiare a prodotti di blasonate Case editrici. Anzi, ci sono editori veri e propri che, in confronto, lasciano addirittura a desiderare. "I compagni di avventura di Zagor", che gode di una bella copertina inedita di Alessandro Chiarolla, ristampa integralmente e in grande formato le sette storie che, tra il giugno 1961 e il giugno 1966, apparvero in appendice alle strisce di Zagor. Storie che con Zagor, beninteso, non avevano niente a che vedere, se non il carattere avventuroso e il taglio "bonelliano" (in un caso, "Vira dura per gli sceriffi", neppure quelli - trattandosi di un fumetto comico). In pratica, su ogni albetto dello Spirito con la Scure comparivano, al termine della tradizionale puntata dedicata al Re di Darkwood, altre poche strisce che portavamo avanti, alcuni passi alla volta, racconti diversi, peraltro non necessariamente western ("L'ultimo Incas", disegnato da Carlo Cossio, si svolge in Amazzonia). L'ultima storia, "La grande caccia", disegnata da Ivo Pavone, iniziata nell'ottobre del 1964, si interrompe improvvisamente un anno e mezzo dopo, senza nessuna spiegazione se non quella, fornita dagli stessi Zagor e Cico che si rivolgono al lettore con due balloon, della cessazione dovuta al fatto che da quel momento in poi tutto l'albetto a striscia sarebbe stato dedicato alle loro avventure, senza spazio per altri eroi. Peraltro, "La grande caccia" era approdata su Zagor dopo essere cominciata nell'aprile del 1964 sulle pagine di Tex: dunque una storia particolarmente sfortunata e difficile da seguire. Dalle strisce del Ranger del Texas passa a quelle dello Spirito con la Scure, e su Zagor si interrompe sul più bello per motivi misteriosi. Se non altro, il volume targato SCLS permette di rileggerla (fin dove si può) tutta insieme, e non è neppure male. Come niente affatto malvagi sono le altre sei avventure (queste, per fortuna, tutte intere) presentate integralmente in ordine cronologico , e corredate da un ricco apparato critico curato da Stefano Bidetti. A inquadrare perfettamente queste storie nel loro contesto contribuisce un lungo e interessante saggio di Gianni Bono che permette di fare chiarezza sulla paternità della storia umoristica "Vita dura per gli sceriffi" (giugno-dicembre 1961), erroneamente attribuita in passato a Raffaele Cormio mentre invece è di Vittorio Coliva. Chiarolla illustra con una tavola a colori inedita tutte le sette storie. Dunque, un tomo davvero imperdibile per gli appassionati e i nostalgici di un'epoca felice del fumetto italiano.

domenica 7 agosto 2016

SILVER: IN BOCCA AL LUPO... MA NON SOLO!



SILVER: IN BOCCA AL LUPO... MA NON SOLO!
a cura di alino, Luca Boschi, Claudio Curcio e Raffaele De Falco
Collana Gli Audaci
Comicon 
brossurato, 2016
112 pagine, 15 euro

Ogni anno, all'ombra del Vesuvio, da un po' di tempo a questa parte, si tiene una importante kermesse fumettistica: Napoli Comicon. In quell'occasione si allestiscono mostre di grande livello e si pubblicano volumi non da meno che sono sempre qualcosa di più che semplici cataloghi. In alcuni casi si tratta di corposi tomi dedicati alla storia di grandi Case editrici (la Bonelli, la Disney, la Marvel, l'Astorina, eccetera). In altri, a corredo, di biografie di grandi autori (Castelli, Manara, Di Gennaro, Milani). Nel 2016 è uscito questo saggio su Guido Silvestri, in arte Silver, che raccoglie una decina di articoli sulla vita e sull'opera del papà di Lupo Alberto. Uno dei contributi, intitolato "Il Lupo Cattivik" è mio, dieci pagine in tutto. Altri saggisti: Luca Boschi, Fabrizio Mazzotta, Pier Luigi Gaspa, Francesco Artibani, Alfredo Castelli, Tito Faraci. C'è davvero tutto quanto si deve sapere: gli inizi, le varie esperienze, le fonti di ispirazione, il successo, i cartoni animati, i rapporti con i collaboratori, l'amicizia con Bonvi e Castelli. Si sottolineano le campagne sociali (come quella contro l'AIDS) e gli aspetti di satira sociale e politica (la serie di strisce con la talpa gay o sulle BR). Non mancano una lunga intervista e una utilissima bibliografia. Viene spontaneo il confronto con i giovani autori che spopolano in Rete: le storie "di carta", nate da dita sporche d'inchiostro, hanno un sapore che secondo me, purtroppo, si è perso. Per fortuna, Silver continua a sfornare storie del suo Lupo per quelli come me che ne sono innamorati.

Ma chi è, Silver? Mettetevi nei panni di un ragazzo che frequenta il secondo anno dell'Istituto d'Arte, da sempre con la voglia di disegnare fumetti; un bel giorno, una delle insegnanti si presenta in classe dicendo che c'è un cartoonist di nome Franco Bonvicini in cerca di collaboratori. Voi che cosa fareste? Guido Silvestri alzò la mano, si fece dare l'indirizzo. Si era a Modena nel 1969: Bonvi (questo lo pseudonimo con cui Bonvicini aveva cominciato a firmare le sue storie) aveva bisogno di aiutanti per portare avanti la nutrita produzione del suo studio. Il Guido di cui stiamo parlando, destinato a diventare celebre come Silver, si presentò portando alcuni dei disegni che da tempo si divertiva a realizzare. Bonvi li guardò e gli disse: "Tu adesso ti scordi di quello che hai fatto finora e cominci a fare queste cose qua", e tirò fuori le tavole di Capitan Posapiano. Poco dopo, nello studio arrivò a dar man forte anche Claudio Onesti (Clod) e Silver gli lasciò il Capitano per passare a Cattivik, mentre Bonvi portava avanti Sturmtruppen e Nick Carter. Guido lasciò scuola e famiglia e si trasferì armi e bagagli in casa Bonvicini. Inizialmente i fumetti dello studio di Bonvi apparivano sul Tiramolla delle edizioni Alpe, poi cominciarono a essere pubblicati sul Corriere dei Ragazzi e su Eureka, per poi approdare addirittura in TV, nella rimpianta trasmissione "SuperGulp". 
In una storia intitolata "Cattivik e il furto del fumetto", vediamo lo sghignazzante criminale penetrare nottetempo nell' abitazione dello stesso Bonvi e mettere le mani sulle tavole delle proprie avventure. Sulla scrivania, accanto ai pennini e alle bottigliette di inchiostro, si può notare un divertente inside-joke, rappresentato da una lettera con su scritto: "Caro Bonvi, l'ultimo episodio di Cattivik è uno schifo. Se in futuro non migliorerà, si ritenga licenziato. Baci, Martini". Il Martini in questione è il celebre Leonello, direttore delle Edizioni Alpe in quel periodo. Benchè quell'episodio sempri a prima vista realizzato da Bonvicini, che del resto vi appare all'interno caricaturizzato, in realtà esso è frutto del lavoro di Silver, a cui il personaggio venne definitivamente affidato nel 1972. "Io ero impegnatissimo nell'enorme produzione di Nick Carter - spiega Bonvi - e a Silver Cattivik piaceva. 'Lo... l-lo p-p-posso fare io?', chiese. 'Tienilo! E' tuo!' risposi, magnanimo".  Il Cattivik di Silver è diverso nella forma (non assomiglia più a un peperone, ma si assottiglia assumendo prima la silhouette di una melanzana, poi quella di una pera) e le sue storie, soprattutto,  raggiungono un notevole livello grafico e narrativo, snodandosi lungo un percorso di vignette ben costruite e molto curate, supportate anche da divertenti sceneggiature. 
Cessate le pubblicazioni sulle pagine di Tiramolla, Silver trasferisce il personaggio sul Corriere dei Ragazzi. E' lì che avviene il debutto di Lupo Alberto. Guido Silvestri racconta così gli antefatti di quello storico evento: "Alla fine del 1973 la casa editrice Dardo aveva in progetto una rivista di grande formato curata da Bonvi e Castelli. Mi proposero di fare una striscia completamente mia, ma mancavano solo venti giorni alla scadenza, e tirai fuori dal cassetto il vecchio progetto di una striscia intorno alla vita di una fattoria, che avevo abbozzato qualche anno prima. Il giornale poi non è mai uscito, ma Bonvi, in uno dei suoi frequenti spostamenti a Milano, prese quelle strisce per portarle a vedere a Francesconi, direttore del Corriere dei Ragazzi. Io non volevo, anche se le avevo fatte con grande passione. Dentro ci avevo messo tutto il patrimonio di cose imparate in quegli anni, e anche i sogni segreti, soprattutto la lezione del Pogo di Walt Kelly. Con mia grande sorpresa, a Francesconi quelle strisce piacquero moltissimo e mi inviò un telegramma (perchè ancora non avevo il telefono) in cui mi proponeva di continuare a farne. La mia gioia fu grande".
Bisogna notare che nei progetti di Silver la striscia doveva intitolarsi "La fattoria dei McKenzie", e il lupo chiamato Alberto vi avrebbe figurato come personaggio di contorno, comparendo di tanto in tanto, mescolato insieme a tutti gli altri animali dai nomi comuni: Marta, Enrico, Cesira, Alcide. Sennonchè Alfredo Castelli, anche all'epoca con le mani in pasta dappertutto e al lavoro come redattore alla corte di Francesconi, decise di sua iniziativa (senza neppure consultare Silver) che il nome "McKenzie" era troppo difficile da pronunciare dai ragazzi più piccoli e che in ogni caso alla striscia avrebbe giovato l'identificazione con un singolo personaggio: così attribuì al fumetto il titolo "Lupo Alberto", obbligando l'autore a dare al lupo  un ruolo di primo piano. Silver non se ne lamenta, anzi, ritiene che "probabillmente il lupo sarebbe diventato il protagonista della striscia in ogni caso, anche se adesso Enrico La Talpa sta acquistando un ruolo sempre più importante". 
Ciò non toglie che le storie della fattoria siano corali: ci sono almeno una decina di personaggi caratterizzati in maniera efficacissima, ciascuno rappresentante una tipologia umana sottoforma di animale. Il debutto del Lupo sul Corriere dei Ragazzi è datato 1974. Nel 1976 Silver comincia a collaborare con l'Editoriale Corno: sulla rivista Eureka diretta da Luciano Secchi appaiono, oltre alle strisce del Lupo, anche altri suoi lavori su testi propri, di Bonvi e di Max Bunker. Lupo Alberto riscuote un successo notevolissimo: un referendum fra i lettori, nel marzo 1978, lo elegge il miglior personaggio della rivista, facendogli battere per distracco le Sturmtruppen di Bonvi e addirittura il mitico Andy Capp, da sembre bandiera di Eureka. Nel 1979 Silver si imbarca con Maurizio Costanzo nell'impresa del quotidiano "L'Occhio", di cui è il vignettista ufficiale.  Agli inizi degli Anni Ottanta, in coppia con Alfredo Castelli realizza la serie "La vecchia casa oscura" e dirige una nuova versione di Eureka. In questa occasione Silver imprime un radicale mutamento di rotta a Lupo Alberto: per più di mille strisce, il personaggio era stato portato avanti sottoforma di gag destinate a concludersi nel breve volgere di tre-quattro vignette. Con l'Eureka di Castelli e Silver (subentrati nella direzione della rivista al posto di Luciano Secchi che aveva lasciato l'Editoriale Corno per creare la sua Max Bunker Press) si cominciano a vedere le prime short-story  sviluppate su più pagine, e le tavole autoconclusive distribuite si quattro strisce. 
Fu proprio dirigendo Eureka che Castelli e Silver pensarono a una testata tutta dedicata al Lupo, e inventarono il formato a sviluppo orizzontale mandando in edicola i primi otto numeri di una riedizione cronologica dell'intera serie. L' esperimento si interruppe a causa del naufragio della Corno, ma fu ripreso nel 1985 dalla Glenat Italia: "Lupo Alberto" tornò in edicola con una rivista tutta sua e, quel che più conta, con una quindicina di tavole inedite ogni mese. Attraverso vari cambi di editore, la testata è ancora in edicola.

sabato 6 agosto 2016

SASQUATCH, ENIGMA ANTROPOLOGICO



SASQUATCH, ENIGMA ANTROPOLOGICO
di Renzo Cantagalli
SugarCo Edizioni
1975, brossurato
210 pagine, 3500 lire

La collana "Universo Sconosciuto" della Sugar, in cui è inserito questo saggio, pubblicava, negli anni Settanta, i best seller di Peter Kolosimo, primo fra tutti "Non è terrestre", su cui hanno sgranato gli occhi i più curiosi della mia generazione. Accanto ai libri di Kolosimo, però, trovavano posto però anche altre indagini sul mistero che poi avrebbero offerto spunti a non finire per la serie di Martin Mystére e oggi vengono saccheggiate dagli autori di "Voyager". Per cui ecco testi sul mostro di Loch Ness, le sculture dell'Isola di Pasqua, la vita oltre la morte e così via. Fra tanti titoli non sfigura questo studio dedicato al Sasquatch, la misteriosa creatura che ha ispirato, oltre a un racconto del BVZM datato 1984, anche uno di Tex (1979) e uno di Zagor (1988). Ma anche molti film, telefilm, cartoni animati,romanzi, brani musicali, documentari, videogiochi e chi più ne più ne metta. "Studio", beninteso, senza valenza scientifica, trattandosi di un onesto lavoro puramente compilatorio, messo insieme rovistando fra un po' tutti gli scritti, le foto e i filmati disponibili all'epoca (oggi il bottino sarebbe stato ancora più ricco), riportando le testimonianze e le opinioni degli studiosi, senza prendere posizione ma mettendo uno accanto all'altro tutti gli elementi perché il lettore possa farsi una propria idea. Cantagalli, comunque, riferisce di aver visitato molti dei luoghi di cui parla e di aver personalmente intervistato alcuni degli abitanti, e c'è da credergli. Il Sasquatch, negli States, viene anche chiamato Bigfoot (ovverosia “piedone”), dato che le impronte del gigantesco scimmione (così viene descritto) rinvenute sul terreno dimostrano infatti come la bestia abbia una pianta podalica grossa il doppio di quelle degli esseri umani, e un peso di diversi quintali, giustificato del resto da una altezza che si aggira mediamente sui due metri e mezzo. Le orme dei piedi, da cui sono stati rilevati degli impressionanti calchi, misurano tra i 40 e i 46 centimetri. Si tratterebbe di un primate bipede dai grandi occhi, senza collo, coperto da una folta pelliccia che varia dal rosso scuro al nero. E’ stato avvistato in tutte le Montagne Rocciose ma soprattutto negli stati di Washington e dell’Oregon. La “caccia al mostro” si scatenò nel 1957, dopo che un certo Albert Ostnam raccontò di essere stato rapito per sei giorni da una di queste misteriose creature, tuttavia i totem dei pellerossa le raffiguravano da molto tempo prima. Anche le cronache dei colonizzatori europei registrano numerosi avvistamenti. La prima risale al 1811, quando l’esploratore David Thompson scoprì delle enormi impronte sulla neve. Da allora in poi è stato un susseguirsi di avvistamenti, in alcuni casi suffragati da foto e video (non in grado però di chiarire il mistero), fino ai giorni nostri. Alcuni scienziati, tra cui l’antropologo Gordon Strasemburg, hanno formulato l’ipotesi secondo cui i Bigfoot potrebbero essere esemplari di ominidi sopravvissuti all’estinzione, forse esemplari di gigantopithecus, una scimmia asiatica di grandi dimensioni. Ma, in generale, tra gli studiosi prevale lo scetticismo. E, se mai foste interessati alla mia opinione in proposito, sono scettico anch'io.

venerdì 5 agosto 2016

AVVICINATEVI ALLA BELLEZZA



AVVICINATEVI ALLA BELLEZZA
di Giovanni Capecchi 
Maria Cristina Masdea
Valerio Tesi e Grazia Tucci
Giorgio Tesi Editrice
2015, brossurato
150 pagine)

Da buon pistoiese ho sempre ritenuto di stupefacentemente belle le ceramiche del fregio che orna la facciata dell'antico, trecentesco Spedale del Ceppo. E mi sono sempre chiesto perché non godessero della fama di tante altre opere d'arte della Toscana. Adesso che è stato portato a termine un lungo e accurato restauro, e i colori delle terracotta invetriate sono tornate al loro primitivo splendore, ci sono buone probabilità che i visitatori accorrano sempre più numerosi ad ammirarle. Insomma, che "si avvicinino alla bellezza", come recita il titolo del catalogo che Giovanni Capecchi, Maria Cristina Masdea, Valerio Tesi e Grazia Tucci hanno confezionato in occasione della fine dei lavori e dell'apertura al pubblico dell'allestimento museale realizzato all'interno del vecchio Ospedale (oggi monumento storico, dato che è stato costruito un moderno nosocomio in periferia). L'allestimento ricostruisce le corsie dei letti così come erano nel medioevo e propone anche ai visitatori i ferri chirurgici in uso nei secoli passati (uno spettacolo degno di un film horror, ma anche una importante testimonianza sulla vita, e sulla morte, dei nostri avi). E' visitabile anche un piccolo ma assolutamente ben conservato teatro anatomico in cui i professori di un tempo sezionavamo i cadaveri per far scuola agli studenti di modicina. 



Ma torniamo al fregio, ovvero a una decorazione di grandi dimensioni sulla facciata dello Spedale, a lungo attribuita alla bottega dei Della Robbia, ma oggi riconosciuta in gran parte come opera del lavoro della famiglia "rivale" e contemporanea di Santi Buglioni. Le ceramiche, lucide e coloratissime, sono state eseguite nei primissimi anni del Cinquecento secondo la tecnica della terracotta invetriata di cui sia i Della Robbia che i Buglioni erano maestri - e, si dice, depositari del segreto della lavorazione, tutt'oggi non del tutto chiarito. La commissione dell'opera si deve a un frate certosino, spedalingo si Santa Maria Nuova a Firenze, Leonardo di Giovanni Buonafede, abile amministratore e amante dell'arte. Da buon mecenate volle farsi raffigurare in prima persona in più punti del fregio, che raffigura le opere di misericordia corporali. Le figure sono tutte a grandezza naturale e dunque gli atteggiamenti sono ben visibili dalla piazza antistante l'edificio, nonostante i trovino a parecchi metri di altezza, Ma se l'insieme, monumentale, stupisce per le dimensioni, lasciano a bocca aperta i particolari e la recitazione dei personaggi. Il catalogo, oltre a inquadrare storicamente il capolavoro pistoiese, mostra in dettaglio decine e decine di volti, la cui perfezione espressiva ha del miracoloso. Inoltre, vengono descritte le difficoltà del restauro e le modalità con cui si è provveduto a eseguirlo, Il mio consiglio è di cercare su Google le immagini del fregio, e poi venire a Pistoia ad ammirarle dal vero.


giovedì 4 agosto 2016

IL PRIMO LIBRO DEL BAMBINO



IL PRIMO LIBRO DEL BAMBINO
di Elisa Cappelli
Salani
cartonato, 1916

Il volume è stato ristampato in anastatica nel 2012 dalla RBA nella sua collezione "Biblioteca del Ricordo", che recupera testi per l'infanzia rari o dimenticati riproponendoli nel formato dell'epoca in cui uscirono (ne abbiamo già recensiti alcuni in questo blog, come "La vita di Gesù" o "Il segretario galante"). "
Il primo libro del bambino" è un testo scolastico destinato a insegnare lettura e scrittura. Commuove un po' vedere in fondo la scritta: "Ora so leggere e scrivere!". All'interno, si trovano tutti gli esercizi che ci si aspetta in un'opera del genere, e dunque si comincia con le lettere dell'alfabeto, le sillabe, i numeri. Il tutto spiegato, devo dire, con molto garbo e, soprattutto, con illustrazioni che permettono di immergersi nell'atmosfera di inizio Novecento, compresi quelli che oggi vengono considerati errori pedagogici: "Mario e l'Ada scrivono bene; ma la Marietta vorrebbe tenere la penna con la mano sinistra invece che con la destra, come naturalmente dev'essere tenuta", spiega una didascalia sotto una illustrazione che mostra la Marietta di spalle, delusa e scornata nel guardare Mario e l'Ada che invece scrivono sorridenti in favore di camera: non si allude a punizioni corporali o a braccia legate dietro la schiena ma certo i mancini si devono essere sentiti tutti molto in colpa. Arrivati oltre pagina 60, arrivano i primi esercizi di lettura: "In un pollaio vivevano due galletti: erano fratelli e avrebbero dovuto amarsi. Invece non facevano che becchettarsi dalla mattina alla sera. Finalmente la massaia disse: 'Questi polli sono troppo cattivi: bisogna punirli!'. Li prese e li mise tutti e due in pentola, poi li accomodò in un vassoio e a desinare li servì in tavola". La morale è facile da trarre, ma se fossi stato un bambino dell'epoca mi sarei chiesto se, prima di metterli in pentola, ai due galletti fosse stato almeno, pietosamente, tirato il collo o se la massaia li avesse messi a bollire vivi. Arrivando alle pagine dei numeri, si fanno degli esempi: tre gatti, due candelieri, un magnano. Rileggo: magnano. Ecco, io non saprei dire che cosa sia. Dalla figura, si direbbe che il magnano sia un fabbro. 
A pagina 77, una istruttiva pagina dedicata al Re d'Italia. "Vittorio Emanuele III è il Re d'Italia. Egli è il figlio di Umberto I, che cadde colpito al cuore da una pallottola assassina. Amava il popolo, era prode, era generoso e pietoso, e fu chiamato il 'Buono'. Vittorio Emanuele III ha tutte le virtù del padre. E' un Re saggio, valoroso , leale. La madre del nostro Re fu Margherita di Savoia, donna di elette virtù, colta e gentile. La sua sposa, la mostra Regina, è Elena del Montenegro, e appartiene a una famiglia di forti e di prodi. Il Re e la Regina d'Italia hanno cinque figli. La maggiore d'età è la principessa Iolanda. Vengono poi la principessa Mafalda, Umberto principe di Piemonte e le principesse Giovanna e Maria. Umberto è il principe ereditario del trono d'Italia; la sua sposa è la principessa Maria Josè del Belgio. Il nostro Re e la nostra Regina sono buoni e pietosi. Appena una sventura contrista il popolo, essi corrono a consolarlo. Viva il Re! Viva la Regina d'Italia. Il tutto è molto istruttivo alla luce dei fatti dei decenni successivi. Viene però da pensare al pensiero di che risate si farebbero i ragazzi di oggi se in un libro di scuola si parlasse di un Presidente della Repubblica o di un Primo Ministro buoni e pietosi.